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FORMAZIONE DELLE AREE
URBANE E METROPOLITANE
XX secolo fino agli anni '70 |
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SCHEDA
- B
LA TRANSIZIONE NEI PROCESSI DI URBANIZZAZIONE: DALLA SECONDA
ALLA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE. |
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ASPETTI GENERALI
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Con
l'applicazione delle nuove tecnologie industriali (in particolare
di quelle basate sull'elettronica) e dell'informatica non
solo ai processi materiali di produzione, ma anche alle altre
funzioni di impresa e alla intera organizzazione dell'impresa
come sistema - cioè con quella che è stata definita la terza
rivoluzione industriale - e con la diffusione e il miglioramento
delle reti di trasporto, energetiche, di telecomunicazione - tende
ad annullarsi la corrispondenza tra economie di scala ed economie
di agglomerazione degli impianti industriali e vengono meno i
motivi che furono storicamente alla base della loro concentrazione
prima urbana, poi suburbana. Ormai da tempo è in atto, in tutti
i paesi industriali, una riduzione assoluta e relativa della popolazione,
e dei posti di lavoro di fabbrica, nelle aree urbane e nelle città
maggiori, la cui più che secolare e ininterrotta crescita demografica
si arresta, o addirittura si inverte, e si assiste al decentramento
ed alla diffusione degli impianti industriali nel territorio e
nei centri urbani minori.
Viceversa
economie di agglomerazione, connesse ad economie di scala, continuano
a sussistere per le attività di direzione e controllo delle grandi
organizzazioni industriali, finanziarie, commerciali, scientifiche
e amministrative e per le numerose attività di servizio ad esse
complementari.
Si tratta di attività
caratterizzate da un elevato “input” di informazioni, dalla
esigenza di contatti e relazioni dirette e personali, per le quali
permangono essenziali la reciproca prossimità fisica, la facilità
di accesso ai centri di produzione della innovazione nei diversi
campi, la disponibilità di personale tecnico scientifico e di
consulenti qualificati, la centralità rispetto alle reti di flusso
delle informazioni, delle idee, delle persone che ne sono portatrici.
Si tratta di attività di tipica pertinenza urbana e metropolitana
che tendono a divenire la componente fondamentale e più dinamica
della base economica delle città maggiori.
I mutamenti indotti
dalla terza rivoluzione industriale tendono a ridefinire le gerarchie
urbane, nel senso che salgono nella gerarchia le città
che più rapidamente convertono la propria base economica conquistando
quote crescenti di funzioni direzionali e di innovazione; scendono
quelle che perdono posti di lavoro industriali e non avviano una
conversione funzionale. Tali mutamenti tendono anche ad accentuare
il carattere sistemico della rete degli insediamenti attraverso
una maggiore integrazione funzionale tra le sue diverse componenti;
integrazione che non si svolge più secondo i modelli classici
di tipo gravitazionale o gerarchico, ma secondo nuove forme di
specializzazione, integrazione o dominanza.
Le trasformazioni in
atto non riguardano solo l'arresto della crescita o i rapporti
gerarchici tra le maggiori città ed aree urbane. Esse coinvolgono
l'intero territorio, urbanizzato e non urbanizzato, anche ad una
scala più minuta. All'interno delle grandi aree urbane si formano
o si estendono le zone di degrado o di abbandono; luoghi, complessi
edilizi e infrastrutture non sono più utilizzati per le attività
per le quali erano state realizzate, e vengono dismessi o ristrutturati
per nuove e diverse attività. Emergono nuove polarizzazioni funzionali,
sociali, ambientali, in un quadro che tende spesso alla dicotomia
ed alla segmentazione piuttosto che all'integrazione. Alla concentrazione
e all'aumento delle densità residenziali si sostituisce la diffusione
e la riduzione delle densità; ad una utilizzazione prevalentemente
monofunzionale dei suoli urbani tipica dello “zoning” tradizionale
- che assegnava un'area all'industria, una alla residenza, una
al commercio e così via - si sostituisce una utilizzazione plurifunzionale
in cui commercio, residenza, produzione, cultura, etc. possono
coesistere; le zone urbane destinate ad impianti industriali si
svuotano, e si pone il problema del riuso delle strutture fisiche;
le tipologie residenziali intensive, a torre o in linea, diventano
inaccettabili per una domanda abitativa che chiede nuove qualità,
e sono sostituite da tipologie basse, più rade, a schiera o per
poche unità; la accessibilità alle diverse zone della città, ed
in particolare a quelle centrali, diviene un requisito indispensabile
non solo dal punto di vista funzionale, ma anche per la qualità
della vita.
Molti
centri urbani minori esprimono una nuova vitalità e percorrono
sentieri di sviluppo fino a qualche tempo fa non prevedibili;
si configurano aree ad economia diffusa che attraggono
nuovi residenti, ove le qualità ambientali, il livello dei servizi,
la disponibilità di spazi residenziali e per il tempo libero offrono
condizioni di vita competitive o superiori a quelle di città un
tempo dominanti; ma si accentuano anche, in centri minori e in
territori marginali rispetto alle reti di trasporto e di informazione,
i fenomeni di invecchiamento demografico, di obsolescenza delle
strutture fisiche e di degrado ambientale. E così via, l'elenco
delle trasformazioni potrebbe continuare: ciò che importa sottolineare
è che si tratta di processi complessi, i quali interagiscono con
la realtà urbana e territoriale così come si è venuta configurando
nel corso dei secoli, ed il cui risultato non è mai univocamente
determinato, ma deriva piuttosto dalla continua interazione con
le strutture preesistenti.
L'intero
processo di pianifícazione territoriale in tutte le sue dimensioni,
da quella più propriamente urbana o metropolitana a quella dei
territori meno densamente insediati, è coinvolto e messo in discussione
dalla nuova fase del progresso tecnico, e dai suoi effetti sul
territorio. Questi impongono un profondo aggiornamento delle
strategie, degli strumenti e delle procedure di pianificazione.
Solo se nei prossimi anni si compirà effettivamente tale “profondo
aggiornamento”, sarà possibile governare le nuove trasformazioni
urbane e territoriali. Solo per questa via l’urbanistica potrà
contribuire a ridare alle città della terza rivoluzione industriale
la qualità e il ruolo che esse hanno avuto in altre epoche storiche.
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1. I PRINCIPALI FATTORI CHE ORIGINANO LA TRANSIZIONE
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I ricordati mutamenti
nei processi di urbanizzazione e nelle dinamiche territoriali
non possono essere interpretati né come episodici né come il risultato
di cicli economici di breve periodo. Essi hanno a che fare con
mutamenti strutturali profondi, con una fase nuova e diversa
delle economie e delle società occidentali, che, non a caso, si
è definita come terza rivoluzione industriale. Essi hanno
perciò un carattere strategico e di lungo periodo.
Dalla ormai ampia letteratura
che in questi ultimi anni ha interpretato tali mutamenti è possibile
enucleare alcuni elementi costitutivi: elementi che definiscono
il passaggio, la "transizione", dal modello territoriale
industriale a quello attuale, o, secondo alcuni, "post-industriale".
I processi di urbanizzazione
associabili alla prima e alla seconda rivoluzione industriale
sinteticamente richiamati nel testo di S. Cafiero erano, in definitiva, determinati dalla convenienza
delle produzioni industriali di beni (manifatturiere) ad aumentare
la dimensione degli impianti e delle quantità prodotte (economie
di scala) e a localizzarsi le une in prossimità delle altre (economie
di agglomerazione), dando luogo a.concentrazioni di forze di lavoro,
richiamate dalla crescente domanda di lavoro, e di servizi destinati
sia alla produzione che alla popolazione.
Il paradigma classico,
introdotto già all'inizio del XX secolo da A. Weber , è costruito per spiegare - attraverso l’analisi
dei meccanismi di funzionamento e di reciproca integrazione delle
economie di scala e di agglomerazione - il fenomeno in quei decenni
inusitato e sconvolgente dell’immigrazione in città, della crescita
urbana e metropolitana, della formazione delle conurbazioni attorno
alle principali città e delle immense periferie industriali. In
termini di economia dello spazio, il paradigma Weberiano spiega
la concentrazione crescente in alcuni punti del territorio
(le grandi città e le loro aree metropolitane per l'appunto) di
industrie, popolazioni e servizi e, come altra faccia della
stessa medaglia, la progressiva riduzione delle attività, prevalentemente
agricole, e della popolazione nel resto del territorio.
Quali sono gli elementi
strutturali che fanno ritenere oggi superati i fenomeni interpretati
dal paradigma classico? In altri termini quali sono i fattori
principali del mutamento nei processi di urbanizzazione e nella
più generale organizzazione territoriale?
Qui di seguito vengono
schematicamente descritti.
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1.1.
Dalla produzione di merci alla produzione di servizi
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E'
noto come nel secondo dopoguerra, ed in particolare dalla fine
degli anni ‘60 nelle economie occidentali tenda a diminuire drasticamente
il ruolo dell'industria sia in termini di occupazione che, in
misura minore, di prodotto. Negli Stati Uniti la percentuale delle
forze di lavoro occupate nell'industria, che ascendeva a circa
il 40% del totale nel dopoguerra, si è ridotta all’inizio degli
anni ‘80 a meno del 30%, mentre l'occupazione nei servizi è passata
da circa il 55% a poco meno del 70% .
In
Italia tra il 1970 e il 1985 il peso percentuale della occupazione
industriale (v. tab. 1) si è ridotto di oltre 6 punti (dal 39%
al 33%) mentre quello della occupazione nei servizi è aumentato
di 14 punti (dal 42% al 56%): alcune previsioni fanno ascendere
l'occupazione nei servizi del nostro paese, al 2000, a oltre il
60% del totale e quella industriale a meno del 30%.(La previsione
si è confermata con qualche diversità. Secondo ISTAT nel 2000
gli occupati nei servizi sono il 63% del totale, quelli nell’industria
il 32% e quelli in agricoltura il 5%).
Si
tratta, d'altro canto, di un fenomeno ormai ampiamente noto ed
analizzato, le cui origini non importa qui descrivere in dettaglio:
basti ricordare che la crescita dei “servizi” e il declino dell’industria
manifatturiera nelle economie occidentali si fa in genere risalire
alla risposta dei sistemi industriali alla "grande crisi"
del 1929. Dopo quella crisi le maggiori imprese industriali si
orientarono da un lato verso una diversificazione delle attività
produttive che permettesse loro di superare le fasi basse del
ciclo economico, e quindi verso l'assunzione di crescenti funzioni
di direzione, organizzazione e controllo con un con seguente innalzamento
della domanda di servizi, la produzione dei quali diveniva via
via più economica all'esterno delle imprese (esternalizzazione);
dall'altro si orientarono verso una crescente concentrazione finanziaria
con conseguente internazionalizzazione delle attività di produzione
e delle aree di mercato, cui avrebbe fatto seguito il decentramento,
in aree periferiche dotate di materie prime e di forza di lavoro
a basso costo (America Latina, Sud‑Est asiatico etc.), delle
produzioni più “labour intensive” ed a più alto consumo
di materie prime. In entrambi i casi l'effetto è stato quello
di una riduzione delle produzioni manifatturiere tradizionali
nei paesi di origine a vantaggio della produzione di servizi.
Quello
che importa sottolineare dal nostro punto di vista è che, con
la riduzione del peso dell’industria (in particolare di quella
“labour intensive” e ad alto consumo di materie prime) nelle economie
occidentali, la localizzazione degli impianti industriali non
ha più un ruolo cruciale nel "disegnare" la città. Il
grande impianto manifatturiero che definiva gli spazi e le funzioni
della periferia metropolitana non è più centro di attrazione di
nuove forze di lavoro; l'agglomerazione delle industrie, che,
come si vedrà, non è più necessaria, non determina più la crescita
urbana e la polarizzazione territoriale. Gìà oggi in Italia, nelle
regioni centrosettentrionali, il numero di posti di lavoro industriali
per abitante nelle province metropolitane è uguale a quello dei
territori non metropolitani. In altri termini, nell'economia dei
servizi" la localizzazione industriale non è più governata
dalle economie di agglomerazione, la distribuzione degli impianti
tende ad essere omogenea sul territorio e l'industria manifatturiera
tradizionale non è più il settore “city forming” delle maggiori
città.
Si
moltiplicano invece il numero e la rilevanza dei casi di dismissioni
di aree un tempo attrezzate ed usate per produzioni industriali
e diviene dominante il tema urbanistico del “riuso” di tali aree
ed attrezzature per nuove e diverse funzioni.
I casi
dello smantellamento degli impianti FIAT Lingotto a Torino e Pirelli
Bicocca a Milano e della progettazione di nuove utilizzazioni
- prevalentemente terziarie e culturalì - per i suoli un tempo
occupati dalla produzione manifatturiera sono solo due esempi
di quanto sta avvenendo in molte altre città ed aree urbane italiane
ed europee.
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1.2.
Dall'impresa mono-impianto e mono-localizzazione all'impresa multi-impianto
e multi-localizzazione
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I processi di diversificazione produttiva, di concentrazione
finanziaria e di internazionalizzazione degli spazi produttivi e
dei mercati cui si è fatto riferimento hanno dato luogo prima all'affermarsi
delle grandi "Corporations" che dispongono di numerosi
impianti e diversi tipi di prodotto, e poi, a partire dal secondo
dopoguerra ed in particolare dalla metà degli anni ‘60, a intensi
fenomeni di decentramento produttivo. I motivi del decentramento
sono stati ampiamente analizzati, e converrà riportare il seguente
passo di R.P. Camagni, in cui vengono sinteticamente descritti:
“La moderna teoria dell'impresa indica come realistica ed
efficiente una strategia di autonomizzazione di differenti operazioni
o funzioni o produzioni, secondo modelli di decentramento funzionale
o divisionale. Tale decentramento può cioè riguardare diverse
funzioni (produzione, direzione, amministrazione, ricerca, magazzinaggio),
diversi prodotti o diversi moduli di produzione dello stesso prodotto.
Allorché il decentramento decisionale si sposa col decentramento
localizzativo, possiamo avere una multilocalizzazione di tipo
verticale nel primo caso e una multilocalizzazione orizzontale
negli altri.
La
base teorica di tale comportamento si trova nel diverso andamento
delle curve dei costi medi di ciascuna fase o operazione elementare
svolta dall'impresa, e nella legge generale che lega l'evoluzione
della specializzazione produttiva con la dimensione del mercato.
Se
le diverse funzioni X,Y,Z mostrano andamenti nei costi medi come
indicato nella figura è
possibile a un certo livello di sviluppo scorporare la funzione
soggetta a rendimenti crescenti (X) in una nuova unità locale
(autonoma o controllata) che lavori anche per altre imprese o
per altre divisioni della stessa impresa, usufruendo in questo
modo di un costo più limitato e costante (linea tratteggiata).
In questo caso la dimensione ottima delle fasi rimaste può essere
mantenuta più limitata (punto b) con costi complessivi inferiori
Anche
per le funzioni a costi crescenti e rendimenti decrescenti una
strategia di autonomizzazione si impone: essa può essere realizzata
attraverso la subfornitura a unità locali più piccole e autonome,
o attraverso la multilocalizzazione di «moduli» o impianti di
piccole dimensioni (ottimali da un punto di vista tecnico o economico)
appartenenti alla stessa impresa.
Nel primo caso si tratterebbe di specializzazione
e multilocalizzazione di fasi diverse (verticale); nel secondo
caso di multilocalizzazione orizzontale.
Trattando
più direttamente il secondo caso, allorché esistono contemporaneamente,
nella determinazione dei costi. degli elementi tecnici (connessi
alla scala della produzione) e dei motivi economici (connessi
alla maggiore conflittualità di una forza lavoro concentrata in
pochi grandi impianti. o al minor costo dei lavoro su mercati
locali decentrati). possiamo affermare che il costo medio è funzione
sia della quantità prodotta che dei numero di impianti con cui
si produce:
CM=f(Q,n)
Per ogni livello di produzione esiste un numero ottimo
di impianti con cui realizzare in modo modulare e decentrato la
produzione complessiva dello stesso bene (17).
La
dispersione territoriale sia di impianti similari, sia delle diverse
fasi dei processo produttivo, dipenderà dalle necessità di interazione
tra le diverse unità locali e quindi dai costi di trasporto, comunicazione
e organizzazione su scala decentrata. dalla dimensione media di
ciascuna unità locale relativamente alla dimensione dei mercato
dei lavoro su cui insiste, e dalle caratteristiche stesse del
mercato dei lavoro in termini di differenziali salariali, di produttività
e di conflittualità fra le diverse aree territoriali.”
Inoltre,
come ha osservato P. Costa:
"Non appena più impianti fanno capo ad
una impresa, per essa sorge la possibilità di scegliere tra lo
sfruttare i legami di interdipendenza tra i propri impianti (anche
non contigui) e i legami tra uno dei propri impianti ed altri
ad esso contigui, ma non appartenenti all'impresa.
L'impresa
può dunque scegliere tra sfruttare economie interne ed esterne
di scala... ed è molto probabile che prevalga la prima alternativa.
Questo
ha dei notevoli effetti sulla teoria dell'agglomerazione.
Se
è vero che la grande impresa - o comunque ogni impresa a più impianti
- tende a privilegiare i rapporti interni rispetto a quelli esterni,
la convenienza dell'agglomerazione d'impianti appartenenti ad
imprese diverse cade drasticamente”
[7]
.
Ora,
sia il progresso delle reti e dei sistemi di trasporto sia la
diffusione delle reti informatiche e di telecomunicazione hanno
ridotto molto i costi che un'impresa deve affrontare per delocalizzare
impianti di produzione. Ciò ha dato un forte impulso ai processi
di decentramento. .
Tutto ciò ha, dal nostro punto di vista, due conseguenze essenziali:
-
gli effetti del decentramento produttivo si sommano a quelli dell'emergere
dell'economia dei servizi (punto 1.1) nel ridurre ulteriormente
il ruolo dell'industria. nelle grandi città;
-
i territori periferici, sia a scala sub‑nazionale che sovra-nazionale,
possono essere interessati, più che in passato da localizzazioni
industriali, sempreché, naturalmente, siano inseríti nelle reti
dì trasporto e comunicazione ed offrano condizioni ambientali
e localizzative adeguate.
Connesso, ma non coincidente,
con il fenomeno del decentramento produttivo è quello, più complesso,
e che qui ci si limita a menzionare, del l'emergere - grosso modo
nell'ultimo decennio - di una nuova vitalità nel le c.d. aree
di piccola impresa" o ad “economia diffusa.
Analizzato per la prima volta in Italia da A. Bagnasco nel 1977, il modello di sviluppo e di organizzazione
territoriale fondato sulla coesistenza ed integrazione di sistemi
di piccole imprese specializzate e di tipo semi-artigianale con
strutture territoriali definite da medi e piccoli centri, spesso
di origine contadina, ha consentito di interpretare, entro un
mercato continuamente in evoluzione che richiede sempre maggiore
flessibilità e capacità di innovazione, le modalità con cui singole
regioni o gruppi di regioni (il Veneto e l'Emilia anzitutto, ma
anche in parte la Toscana e l'Umbria, l'Abruzzo, la Puglia) hanno
risposto positivamente alla crisi degli anni ‘70.
Anche in questo caso
si affermano sistemi territoriali diversi da quelli tipici della
concentrazione urbana delle prime due rivoluzioni industriali,
nei quali non è più la crescita quantitativa del singolo impianto
o della singola città a creare convenienze economiche, bensì un
più articolato sistema di specializzazione integrazione economico-territoriale.
E’ questa l’origine strutturale
di quel fenomeno, assai diffuso in Europa e in Italia a partire
grosso modo dalla fine degli anni ’70, che va sotto il
nome di città diffusa, e di cui B. Secchi è stato uno dei
più acuti studiosi
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1.3.
Arresto della crescita e conversione funzionale nelle aree urbane
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Che si consideri ogni
insediamento, o porzione di territorio, come risultato della accumulazione
storica di processi antropici di trasformazione, o che, ad una
scala più ampia, si considerino ampie regioni come sistemi spaziali
strutturati da insiemi interconnessi di centri urbani, il territorio
non può mai essere considerato come ambito spaziale “indiffererente”,
“tabula rasa” priva di preesistenze, vincoli, attività.
Sotto questo profilo
se il sistema urbano di una regione, o una città, sono sospinti
a trasformarsi in relazione al mutare delle condizioni economiche
e produttive, è altresì vero che a loro volta le trasformazioni
del sistema urbano, o della città, influiscono sull'economia e
sull’attività produttiva. Una regione o una città saranno in grado
di attrarre un'attività economica dinamica ed innovativa nella
misura in cui le offriranno condizioni fisiche, funzionali e ambientali
competitive per il suo esercizio. Dunque non solo la distribuzione
delle città in una regione, la loro dimensione, i loro rapporti
di integrazione, ma anche la composizione della loro base economica,
le loro caratteristiche funzionali ed ambientali, la loro dotazione
di infrastrutture e di servizi, rappresentano fattori primari
di sviluppo o di regresso, dell'intera economia di una regione
o paese.
Ne discende che le
modalità con cui le basi economiche, le caratteristiche funzionali
ed ambientali, le dotazioni di infrastrutture e servizi delle
città, ed in specie delle maggiori, hanno reagito alle trasformazioni
economiche e produttive fin qui descritte ne rappresentano non
solo un effetto, ma, a loro volta, producono effetti su di esse.
Tra sistema delle città e sistema economico si instaura un
rapporto biunivoco, del quale a noi interessa soprattutto l'aspetto
fisico e spaziale.
Le trasformazioni
economico-produttive richiamate ai punti 1.1 e 1.2 hanno dato
luogo, grosso modo nel corso degli anni '70 e della prima metà
degli anni ’80 ad un periodo di intensa “crisi urbana”. Schematizzando
molto, e riferendoci, per il momento, alle grandi aree urbane:
-
Si è drasticamente ridotto il numero dei posti di lavoro nelle
produzioni tradizionali, specie in quelle manifatturiere, ed in
alcune attività di servizio (commerciali, si pensi ad alcune “città
portuali”, o contabili-amministrative di routine etc., il cui
esercizio è più conveniente decentrare).
-
Un peso ed un ruolo crescente in termini di posti di lavoro e
di reddito è stato assunto dalle attività connesse: a funzioni
direzionali e di controllo dei processi produttivi (gli headquarters
delle grandi corporations, delle maggiori società finanziarie
e commerciali, delle associazioni di categoria etc.); ai servizi
specializzati alle imprese, alla finanza e al management,
alla creazione e circolazione di messaggi e informazioni; alla
cultura, alla ricerca e alle "scienze del corpo” all'industria
del tempo libero. Si tratta di attività il cui esercizio risulta
più conveniente in ambiente metropolitano per la numerosità dei
contatti 'faccia a faccia" che esse richiedono, per la “nodalità”
rispetto alle reti nazionali e sovranazionali di trasporto e comunicazione,
per i vantaggi di “agglomerazione”, cui sono ancora sensibili
molte produzioni di servizi specializzati ed innovativi. La sostituzione
dalle nuove alle vecchie attività può essere sinteticamente indicata
come "conversione funzionale".
-
Il bilancio tra posti di lavoro persi per chiusura o trasferimento
delle attività tradizionali, e posti di lavoro generati dalle
funzioni emergenti, è stato, in molte aree urbane, negativo. Ciò
a dato luogo a fenomeni anche drammatici di “crisi urbana”,
particolarmente vistosa per quelle città che erano fiorite grazie
allo sviluppo di particolari settori produttivi (si pensi alle
“città dell’auto”, a molte città portuali, alle città dell’acciaio
ecc.) i cui impianti sono stati drasticamente ridimensionati dalla
sostituzione tecnologica e dal trasferimento in altre aree, ove
i costi dei fattori e i conflitti sono risultati inferiori. La
riduzione della domanda di lavoro nelle grandi aree urbane spiega
(assieme ad altri fattori quali la riduzione del tasso di natalità,
i nuovi comportamenti sociali e culturali, le nuove domande "di
qualità”, etc.) l'arresto della loro crescita demografica: arresto,
o addirittura inversione, che si era già verificato da tempo nei
distretti centrali, ma che ora si estende a vaste porzioni periferiche
e alle aree nel loro complesso (vedi schema).
-
La "conversione funzionale" non è però un processo
automatico né privo di conseguenze. Non è un processo automatico
nel senso che non basta la crisi delle attività tradizionali perché
esse vengano sostituite da funzioni innovative. Al contrario,
l'obsolescenza e l'alto costo di rinnovo del capitale fisso sociale
accumulato nel lungo periodo di crescita, la rigidità di molti
impianti ed attrezzature realizzate in funzione di attività che
oggi risulta più economico trasferire o sostituire (si pensi ai
capannoni e stabilimenti manifatturieri e ai vuoti, o ai problemi
di riuso, che essi pongono), l'inadeguatezza delle infrastrutture
e dei servizi di trasporto e comunicazione, un insieme complesso
di fattori fisico‑ambientali il cui degrado è stato aggravato,
nel corso degli ultimi 10-15 anni, dalle crisi finanziarie e dai
vincoli di spesa locali, concorrono a rendere più difficile la
conversione funzionale, e problematica l'attrazione delle nuove
funzioni. In altri termini è l'intera attrezzatura fisica e
l'organizzazione spaziale della "metropoli" che entra
in gioco, ed alla quale è oggi richiesto di offrire un "ambiente"
idoneo all'esercizio delle attività emergenti.
-
Se la conversione funzionale non è un fatto per così dire "spontaneo",
ma richiede strategie, risorse ed interventi “ad hoc”, essa provoca,
d'altro canto, una riformulazione delle gerarchie urbane.
Ha conseguenze rilevanti sullo sviluppo economico, sulle condizioni
di reddito, sulle dinamiche sociali delle singole aree, e quindi
sulle relazioni che fra di esse si instaurano. Salgono nella scala
gerarchico funzionale le aree urbane che riescono a "conquistare"
quote crescenti di attività direzionali innovative, di produzione
di servizi avanzati alle imprese, di funzioni nodali; scendono,
viceversa, quelle ove la quota di tali attività non aumenta o
si riduce.
-
Diviene più intensa, e supera i confini nazionali, la competizione
tra le maggiori aree urbane. Si parla di “ubanistica concorrenziale”:
è difficile oggi immaginare che un'area urbana possa mantenere
la sua posizione gerarchica senza procedere speditamente nel processo
di conversione funzionale. Ciò non vuole dire che
questa rappresenti,
di per sè, un obiettivo: è però una condizione necessaria, seppure
non sufficiente, affinché siano perseguibili obiettivi di “sviluppo
in assenza di crescita" e di riqualificazione urbana.
Il processo di “conversione
funzionale”, sempre con riferimento alle grandi aree urbane,
è stato efficacemente analizzato, fra gli altri, da A.J. Scott,
del quale riportiamo, alcuni semplici schemi.
La successione delle
tre fasi, rappresentata nei tre ideogrammi, può essere confrontata
con i tre periodi di sviluppo tecnico ed urbanizzazione considerati
nel testo di S. Cafiero.
Interessa ora considerare
la terza fase, quella attuale, ed indicare gli effetti delle
trasformazioni nelle due parti dell'ideogramma: l'interno del
cerchio può essere assunto come schematicamente rappresentativo
della “città centrale” di una grande area urbana (o anche come
core di un più ampio sistema regionale), ed il suo esterno come rappresentativo
delle periferie urbane o metropolitane, con i loro sub-centri
(o anche come parte esterna della regione, o territorio inter-metropolitano,
con i centri urbani minori).
All'interno della
città centrale (o del core regionale): il declino
delle attività tradizionali, manifatturiere o di ufficio, comporta
come si è visto, una drastica riduzione dei posti di lavoro
intermedi (impiegati e operai) definibili per il carattere esecutivo
delle attività, il livello medio o medio-basso di istruzione
richiesta, l'elevata garanzia di occupazione, il carattere formalizzato
del mercato del lavoro.
D'altro canto l'emergere
delle nuove funzioni, ed il coesistere, accanto ad esse, di
un settore "labour intensive” destinato ai consumi locali,
orienta la nuova domanda di lavoro verso i due poli estremi
del ventaglio occupazionale: gli “indipendent primary jobs”
(dirigenti, professionisti, etc.) da un lato, i “secondary jobs”
dall'altro (lavoratori saltuari non garantiti, etc.). Caratterizzati
i primi da attività di tipo tecnico-professionale, manageriale,
comunque richiedenti un alto livello di conoscenza e capacità
di soluzione di problemi, con redditi elevati e forti capacità
di avanzamento professionale; i secondi viceversa, da attività
spesso temporanee, esecutive e ripetitive, richiedenti scarsi
livelli conoscitivi, con redditi bassi, senza possibilità di
avanzamento professionale, con scarse garanzie di occupazione.
I
due fenomeni danno luogo ad una sinergia nella trasformazione
dei mercati del lavoro metropolitano verso quello che è stato
definito un “modello dicotomico” nel quale tendono ad aumentare
i livelli alti e bassi di occupazione, mentre si riducono quelli
intermedi. Ciò ha naturalmente conseguenze rilevanti non solo
sulla struttura socio-economica delle grandi aree urbane, ma
anche sul loro assetto fisico-spaziale. E viceversa un assetto
fisico-spaziale di tipo dicotomico tenderebbe a ripercuotersi
sulle condizioni di vita e di lavoro nell'area.
Segnali
di una crescente dicotomia spaziale fisica nelle maggiori aree
urbane emergono non solo dalla realtà statunitense , ove assumono il connotato di un forte riaccentramento
delle funzioni emergenti e dei ceti ad alto reddito, e di un
crescente degrado delle aree semiperiferiche, ma anche da grandi
città europee (inglesi ad esempio).
E’
possibile che nelle nostre grandi aree urbane tali effetti siano,
per così dire, mitigati e ritardati sia dai diversi connotati
storici dell'urbanizzazione sia dalla minore intensità relativa
con cui si manifesta in molti casi la conversione funzionale,
sia infine dalla circostanza che le risorse delle amministrazioni
locali sono ancora in buona parte garantite, a differenza di
quanto accade in altri paesi, indipendentemente dalle variazioni
della base impositiva locale (la riduzione di quest'ultima non
determina quindi effetti cumulativi di crisi e di arresto dei
programmi di spesa pubblica). E' tuttavia molto probabile che,
originate come sono da trasformazioni strutturali e di lungo
periodo, le tendenze verso modelli dicotomici si affermino anche
da noi. Esse sono comunque intrinseche ai processi di conversione
funzionale.
Non
solo: l'affermarsi di tendenze dicotomiche strutturali del tipo
di quelle indicate potrebbe avere effetti particolarmente gravi
nelle grandi città meridionali ove esse si sommerebbero ad altre,
già consolidate e non meno devastanti dicotomie quali quelle
riassumibili nei termini di città legale e città illegale o
tra alcune zone urbane “privilegiate”, e vaste periferie (o
anche centri storici) degradati.
Si
è così di fronte a un duplice problema: da un lato occorre favorire
la conversione funzionale verso le nuove funzioni urbane, pena
il regresso e il declino della vitalità economica dell'area;
dall'altro è necessario prevederne i probabili effetti negativi
sul piano della vita sociale e delle strutture fisico-spaziali
e promuovere strategie di riequilibrio e di integrazione urbana.
Nelle
periferie urbane/metropolitane ( o nel territorio inter-metropolitano):
qui gli effetti indotti dalle trasformazioni metropolitane e
dalle determinanti che le hanno originate appaiono più articolati
e differenziati nelle singole realtà regionali, ma non meno
significativi. E' però possibile individuare almeno due aspetti,
significativi, di natura sufficientemente generale.
Il
primo è costituito dal nuovo peso che assumono, nel territorio
delle grandi periferie metropolitane ( o nel territorio inter-metropolitano)
le reti di trasporto, energetiche e di comunicazione:
la possibilità cioè di trasferire nello spazio in modo sempre
più rapido e meno costoso quantità crescenti non solo di persone
e mezzi ma anche di dati, informazioni, messaggi (le linee esterne
al cerchio dell'ideogramma).
In
questi spazi il territorio è, di norma, già percorso ed innervato
da infrastrutture di trasporto, energetiche e di comunicazione,
spesso realizzate nel corso delle due prime fasi di crescita
urbana (1° e 2° rivoluzione industriale) che, se hanno soddisfatto
le esigenze primarie di accessibilità, di rifornimento di energia
e di comunicazione, sono oggi tuttavia insufficienti per il
livello qualitativo del servizio offerto (scomodità, ritardi,
affollamento e inaffidabilità per i trasporti; affollamento
delle linee e lentezza per la trasmissione dati), o per i diversi
e gravi inquinamenti prodotti (oltre a quello, ben noto, atmosferico,
determinato dalle emissioni di gas e particolati da parte dei
motori a scoppio, che non può che essere affrontato attraverso
un miglioramento del modal split a favore dei trasporti
di massa non inquinanti e l’introduzione di motori a diverso
propellente, si pensi all’inquinamento elettromagnetico e visivo
dei grandi elettrodotti, all’inquinamento acustico ecc.). Spesso
quindi non si tratta tanto di prevedere nuovi grandi tracciati
infrastrutturali di base (in alcuni casi tuttavia ancora necessari,
soprattutto per le reti di trasporto metropolitano in sotterranea)
quanto piuttosto di valutare in dettaglio le specifiche domande
non soddisfatte, il modal split nel campo dei trasporti,
i problemi di gestione, manutenzione e ottimizzazione delle
infrastrutture, la loro efficienza anche sotto il profilo dell'esistenza,
o meno, di efficace integrazione tra i diversi livelli gerarchici
delle reti, gli interventi di “riambientazione” delle reti stradali,
quelli di mitigazione degli impatti, ecc. La questione decisiva
diviene dunque quella di applicare anche, talvolta soprattutto,
alle reti delle periferie metropolitane, criteri di qualità
del servizio offerto, di riduzione degli impatti, di migliore
uso delle infrastrutture esistenti, di efficienza e di corretta
manutenzione. Criteri che sono peraltro alla base dell’approccio
della trasformazione qualitativa, che ormai sostituisce, nei
diversi campi dell’azione urbanistica, quello della crescita
quantitativa.
Il secondo aspetto generale
riguarda la tendenza alla formazione di sub-poli e di centralità
nei territori periferici o inter-metropolitani, nonché il tipo
di attività e di servizi che tendono a localizzarsi in tali
centri intermedi o minori (i punti esterni nell'ideogramma).
Numerose ricerche convergono
nel rilevare come le modalità dello sviluppo di molti centri
intermedi o minori, nelle estese periferi metropolitane o in
più ampi territori intermetropolitani, ovvero facenti parte
di "aree ad economia diffusa”, siano essenzialmente legate
alle specializzazioni produttive locali, alle identità che traggono
radici nelle storie sociali, culturali e produttive locali.
Questi “percorsi di sviluppo” danno luogo anche alla crescita
di servizi non banali direttamente funzionali alle specializzazioni
produttive locali.
In altri termini la distribuzione
delle attività entro il sistema urbano nel suo insieme (aree
metropolitane, centri intermedi e minori etc.) non avverrebbe
secondo il classico modello gerarchico delle località centrali,
ma piuttosto lungo una struttura reticolare continua e interdipendente,
anche se non spazialmente omogenea. “... Prove in corso per
le regioni a sviluppo 'maturo' rivelano che molti centri dei
livelli gerarchici inferiori e intermedi presentano una certa
quota di servizi specializzati che secondo il modello delle
località centrali dovrebbero aversi solo in livelli gerarchici
superiori.. L'ipotesi è quella di un modello alternativo di
specializzazione funzionale non gerarchica dei singoli centri
(o reti locali), entro sistemi territoriali più vasti, corrispondenti
a quelli della deconcentrazione industriale” .
Non diversamente nei
centri che si vengono formando all’interno delle periferie metropolitane,
anche per l’impossibilità del centro storico di rispondere alla
crescente domanda metropolitana
di luoghi complessi ove coesistano molteplicità di spazi e di
funzioni, accanto a funzioni produttive delocalizzate dalla
città centrale compaiono spesso servizi di rango elevato che
conferiscono anche forme nuove di identità a sezioni prima anonime
di periferia.
In altri termini anche
la parte dell’ideogramma esterna alla città centrale non va
letta come meccanico processo di delocalizzazione, ma come più
complessa trasformazione delle funzioni e degli spazi periferici
che, certamente, da quella delocalizzazione prende le mosse.
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Le l'innovazioni', dell'era del "computer"
sono troppo note perché si debba qui ricordarle. Sarà sufficiente
porre in evidenza, schematicamente, le principali modalità con
cui le nuove tecnologie hanno interagito, e continueranno ad
interagire nel prossimo periodo, con le trasformazioni strutturali:
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L'introduzione dei robots e delle macchine a controllo
numerico nella produzione di merci ha fortemente ridotto l'impiego
di lavoro operaio per unità di produzione (punti 1.1 e 1.2).
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L'applicazione delle tecniche informatiche
alla programmazione e gestione industriale ha permesso di ridurre
la dimensione ed aumentare il numero degli impianti (v. punto
1.2) ed ha accresciuto fortemente la flessibilità produttiva.
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Le tecnologie elettroniche e la diffusione delle reti informatiche
hanno reso immensamente più agevole l'esercizio delle funzioni
di direzione e controllo a distanza, permettendo di accelerare
i processi di decentra mento, favorendo la “concentrazione diffusa”
di sedi direzionali nelle città centrali (punto 1.3).
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Attraverso la loro applicazione al settore dei trasporti ed
alla movimentazione delle merci (si pensi al sistema “containers”,
ai centri intermodali etc.), le nuove tecnologie hanno ridotto
il costo per unità trasportata, aumentato le percorrenze e la
capillarità dei collegamenti: ciò ha reso più convenienti i
processi di multilocalizzazione e decentramento produttivo (punto
1.3)
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