Perché pubblicare ora uno studio concluso quasi due anni fa ? Cosa c'è in questo lavoro che valga la pena di essere conosciuto anche da chi non ne è stato direttamente coinvolto per averlo svolto, o commissionato, o perché abita nel quartiere cui lo studio è destinato? Cioè, più semplicemente: perché questo libro ?
A queste domande cerca di rispondere questa introduzione. Domande che mi si sono poste appena formulata l'idea di far conoscere attraverso un libro lo “Studio di pre fattibilità di un progetto urbano per l'ambito di viale Giustiniano Imperatore” svolto dal Dipartimento di Architettura e Urbanistica per l'Ingegneria (DAU) su incarico del Comune di Roma. Il consenso e l'incoraggiamento ricevuto dai colleghi che avevano partecipato allo studio mi hanno indotto a riprenderlo in mano per valutare il senso della sua pubblicazione.
Non certo quello di presentare un lavoro esemplare, né tanto meno un modello. Come accade forse per ogni studio, di certo per questo, a rileggerlo dopo un po' di tempo si vorrebbero approfondirne alcune parti, cambiarne altre, introdurne di nuove. Vita ed esperienza ci fanno mutare naturalmente l'angolazione dello sguardo, ci pongono nuovi interrogativi, cambiano le luci e le ombre. Ciò nondimeno completata la rilettura mi è sembrato che alcuni motivi dai quali era nata l'idea della pubblicazione avessero superato la prova e fossero rimasti ben saldi. Eccoli.
Da quando lo studio è stato concluso (dicembre 2002) e poi presentato con un convegno nell'aula del Chiostro della Facoltà di Ingegneria della Sapienza di Roma (maggio 2003), alcune cose si sono mosse nel quartiere. Nel novembre del 2003 il Comune ha collocato lungo il viale, quasi al centro del quartiere, un'ampia struttura prefabbricata chiamata infobox : centro informativo, che ha iniziato a vivere ospitando riunioni tra residenti e con l'amministrazione comunale; qualche mese dopo sempre il Comune ha bandito un concorso per raccogliere idee per la “riqualificazione” del quartiere e individuare un consulente per il successivo percorso di progettazione urbanistica. Nello stesso periodo (dicembre 2003) è cessata l'attività del deposito dell'ATAC e finalmente, come nello studio si proponeva, i residenti non sono stati più assillati da rumori, vibrazioni ed esalazioni che nelle ore antelucane segnalavano l'accensione dei motori diesel degli autobus. Ora il deposito potrà essere ristrutturato per divenire un centro di vita del quartiere. A suggellare questa sequenza di iniziative, e ad esito del concorso, il Comune ha annunciato (luglio 2004) - come era già avvenuto dopo il convegno nell'aula del Chiostro di un anno prima, ma ora con più dettagli e maggiore determinazione - l'intenzione di costruire nuove case e demolire le vecchie, ridisegnando gli spazi aperti e pubblici del quartiere. Impegni precisi, atti di non ritorno.
Qualcosa dunque si è mosso nel quartiere che attendeva da decenni e dal quale, nel dicembre 2001, 45 famiglie erano state sgomberate per lo stato di dissesto strutturale dell'edificio che abitavano. Lo studio è stato fertile, ha contribuito a produrre risultati che sembrano promettenti. Questo mi sembra il primo motivo per farlo conoscere. Di ciò che cambia la città, o che può cambiarla, è utile fissare le fasi iniziali, idee e programmi al momento del loro nascere. Ciò permette di misurare, di volta in volta, quanto ci si sia avvicinati, o allontanati, da quelle idee, obiettivi, speranze. Aiuta a verificare gli atti che via via si compiono; costringe a valutare le stesse idee iniziali, gli obiettivi, le speranze: a precisarli e cambiarli, se necessario. E' il primo passo, indispensabile, di un'urbanistica responsabile, pragmatica, trasparente.
Il secondo motivo per il quale mi è sembrato che valesse la pena di pubblicare lo studio è che in esso si affronta specificamente, dettagliatamente e con riferimento ad un caso concreto il tema della “sostituzione” edilizia ed urbanistica di un intero brano di città. Non di demolire e ricostruire alcune case, magari un intero quartiere “pubblico”; né di rifare solo gli spazi pubblici aperti, le strade, le piazze o i giardini di una parte della città. Cioè non di intervenire sulla parte “pubblica” della città: su questo tipo di sostituzione nei paesi di antica industrializzazione vi è una esperienza ormai consolidata, anche se in Italia siamo arrivati buon ultimi e con interventi, mi sembra, non particolarmente significativi. No, il tema è altro e più rilevante. Non riguarda l'edilizia residenziale pubblica, bensì l'edilizia residenziale privata, cioè non il 15 ma l'85% dello stock esistente. Non riguarda un singolo complesso di un unico proprietario ma centinaia e centinaia di alloggi abitati nella gran parte dai rispettivi proprietari che li hanno acquistati con pluri decennali risparmi; e riguarda un quartiere costruito con tipi intensivi e densità elevate in base al piano regolatore del 1931. Riguarda i suoi spazi pubblici e aperti che all'epoca della costruzione furono concepiti solo come spazi di risulta, “ciò che resta una volta fatti gli edifici”. Strade larghe ma indifferenziate e senza identità. “Vuoti” mai pensati né tantomeno progettati, ma originati dal fatto che alcuni grandi lotti sono rimasti inedificati per quarant'anni. Incompletezza e assenza, dunque, che tuttavia gli abitanti percepiscono spesso come positivi perché hanno ridotto la densità degli intensivi che, se fossero stati costruiti tutti come aveva stabilito il piano del 1931, sarebbe stata eccessiva. Pause sgraziate e senza senso che comunque “danno più cielo”. Lo studio riguarda un quartiere, una parte di città che si potrebbe e dovrebbe rifare.
Si tratta dunque di un “caso” assai significativo. Soluzioni efficaci, che raccogliessero domande e speranze diffuse nel quartiere, che ne valorizzassero le strutture e gli spazi, ne migliorassero le condizioni di gestione e di uso avrebbero indubbiamente contenuti per così dire “prototipali”. Se si riesce qui a “rifare” un quartiere mal pensato e mal fatto negli anni della grande e caotica e sregolata crescita, allora è forse trovata una strada anche altrove percorribile. Un modo per “rifare la città su se stessa”.
Il terzo motivo è che il lavoro ha affrontato il tema con un approccio tipico della “progettazione urbana”. Non con la specifica procedura del progetto urbano come prescritta nel nuovo piano regolatore generale di Roma, adottato per altro quando lo studio era già concluso. Bensì con il “metodo” e il “punto di vista” del progetto urbano. Del resto la richiesta dello stesso Comune committente era quella di valutare la pre-fattibilità di un progetto urbano, non di redigerlo. Dunque lo studio non è un progetto urbano svolto, bensì un progetto urbano nella fase iniziale, di gestazione. E' uno studio volto a valutare se vi siano o meno le condizioni per avviarlo, un progetto urbano; se vi siano, e quali siano i pre-requisiti di fattibilità necessari a raggiungere gli obiettivi e a realizzare il programma di un progetto urbano. Ed in effetti nello studio si ritrova questa “ambiguità” o incertezza: se lo strumento specifico del progetto urbano come sarebbe stato poi normato dal nuovo piano regolatore generale, fosse lo strumento più adatto per raggiungere quegli obiettivi e realizzare quel programma o se fossero preferibili altri strumenti. Solo la conclusione dello studio ha permesso di risolvere ambiguità e incertezza e nella relazione di sintesi si opta per lo strumento del “programma integrato”. Il che non vuol dire, come il lettore potrà verificare, abbandonare il metodo e l'approccio propri della progettazione urbana. Più semplicemente e pragmaticamente vuol dire scegliere fra gli ormai numerosi strumenti utilizzabili per intervenire sulla città esistente, per fare progettazione urbana, quello più adatto al luogo concreto, agli obiettivi che si intendono perseguire e al programma che si vuole realizzare.
Da questo punto di vista, proprio per questo concentrarsi sulla fase di gestazione del progetto urbano, lo studio mi sembra utile a formulare e verificare alcune questioni di metodo. Più esattamente a precisare e descrivere meglio alcuni procedimenti di progettazione urbana. A chiarire il significato di alcuni termini con i quali ho l'impressione avremo a che fare nel prossimo futuro.
Il quartiere
Prima di ragionare attorno a quelli che mi sono sembrati i tre elementi di interesse generale dello studio gettiamo lo sguardo su questa parte di città, magari anticipando quanto dirà con maggior dettaglio lo studio stesso.
Il quartiere di viale Giustiniano Imperatore è collocato nel quadrante sud della città, in zona semi-centrale, tra due grandi direttrici radiali che dal centro storico si dirigono verso il mare: il grande viale, nato alla fine degli anni '30 come “Via Imperiale” poi divenuto via Cristoforo Colombo, che lo delimita ad est, e la via Ostiense lungo l'antico tracciato romano, affiancata dalla linea B della metropolitana - in questo tratto in superficie - che lo delimita ad ovest. E' percorso per tutta la sua lunghezza, in direzione est-ovest, dall'ampio viale Giustiniano Imperatore che ne costituisce l'asse principale; parallele al viale sono la via Costantino lungo il bordo nord e la via Alessandro Severo, a sud, entrambe meno larghe del viale centrale. Sul bordo occidentale del quartiere, all'incrocio tra il grande viale e la via Ostiense c'è la fermata S. Paolo della metropolitana. Oltre la via Ostiense, verso il Tevere, la Basilica di S. Paolo “fuori le mura” e il parco Schuster, piccolo ma gradevolmente riorganizzato e restaurato in occasione del Giubileo del 2000. La Basilica e il Parco sono, per così dire, la radice urbana nobile e bella del quartiere, che però ne è separato dalla barriera dei binari della metropolitana. Barriera superabile solo, e male, attraverso un largo sottopasso in corrispondenza della fermata.
L'urbanizzazione di questa parte della città iniziò nei primi anni '20 del Novecento con l'insediamento della celebre e celebrata “Garbatella” dell'Istituto Case Popolari. Trent'anni dopo, quando “ la Garbante ” era diventata una delle borgate romane più radicate nell'animo popolare della città, Pasolini avrebbe ambientato tra “le strade in salita coi giardinetti in fila, le case coi tetti spioventi e i cornicioni a piatti cucinati, i mucchi di palazzoni marone con centinaia di finestrelle e d'abbaini, e le grandi piazzette cogli archi e i portici di roccia finta intorno” i rari momenti sereni della vita violenta di Tommaso Pezzulli e dei suoi compagni . Oggi molti di quei villini e caseggiati che furono progettati da architetti come Giovannoni, Piacentini, Sabbatini, sono diventati, grazie al tessuto urbano pacato e gradevole, piacevoli e ricercate abitazioni. Alla fine degli anni '20, in quella che era invece ancora aperta campagna, più di un chilometro oltre le case in costruzione della Garbatella, fu realizzato il deposito “Littorio” per i tram della Stefer.
Il piano regolatore del 1931 definì i tracciati viari per urbanizzare i suoli tra il deposito “Littorio” e Garbatella destinando le aree più esterne a edilizia intensiva, quelle più interne verso Garbatella, a palazzine. Alcune di queste ultime furono costruite poco dopo, con impianti “ad isolato” unitari e con qualche buona soluzione architettonica. I palazzoni intensivi di Viale Giustiniano, di otto o nove piani, furono invece realizzati dopo la guerra, nella seconda metà degli anni '50, quando i sindaci erano Rebecchini, Tupini, Cioccetti e la città cresceva di 60.000 abitanti l'anno. Costruiti senza andare tanto per il sottile, senza curarsi del fatto che le loro fondazioni troppo corte ed esili poggiassero sui terreni di riporto con i quali era stata riempita la valle del fosso di Grotta Perfetta. Fossero quindi del tutto inadatte a sostenere il peso degli edifici.
Oggi, come si dice nello studio, la situazione del quartiere è “eccezionale” e “comune” al tempo stesso.
“Eccezionale” perché molti di quei “palazzoni” costruiti in fretta e mal fondati, appena completati cominciarono ad inclinarsi, aprirsi, creparsi, e non si sono ancora definitivamente assestati. Sicché, chi cammina nel quartiere, e ancor più chi ci vive o lavora, percepisce ogni giorno una sorta di inclinata precarietà.
“Comune” per l'incompiutezza degli spazi pubblici, la pesantezza degli intensivi, l'episodicità della realizzazione di servizi – le scuole, la piscina comunale, i giardini, i parcheggi, il mercato e così via – dietro ognuno dei quali c'è stata una passione, una lotta o un conflitto, ma che non riescono, separati, sconnessi e non finiti come sono, a fare città. Come accadeva del resto in tante parti della città costruita in quegli anni.
Tra Via Costantino e via Alessandro Severo quasi tutti gli intensivi sono a proprietà frazionata, con alloggi abitati dalle famiglie che li possiedono, organizzate in condominii. I dissesti e l'inclinazione degli edifici, in alcuni casi molto visibili, ne hanno ridotto il valore di mercato. Sporadici e puntuali interventi di consolidamento, realizzati da qualche condominio, hanno forse arginato il rischio, non cambiato le cose.
D'altro canto la struttura urbanistica del quartiere ha ancora notevoli risorse: le principali strade sono regolari, larghe e con alberature imponenti.
L'accessibilità è buona, grazie alla prossimità della fermata S. Paolo della linea metropolitana B e di viale Cristoforo Colombo. La stessa incompletezza dei tessuti - alcuni grandi lotti sono rimasti inedificati – se contribuisce all'aspetto di “non finito” e di precarietà del quartiere, rappresenta tuttavia una risorsa di spazi aperti, in diversi casi non gestiti e abbandonati. Gli spazi pubblici, numerosi ma spesso non risolti, soffrono di questo stato di sospensione e precarietà che si respira nelle strade. Il deposito degli autobus ATAC, in una posizione strategica fra il quartiere e la metropolitana, se ben riutilizzato, potrebbe diventare un “luogo centrale” del quartiere, punto di incontro e di scambio sociale e culturale.
Nel Gennaio 2001 il Comune aveva affidato all'Università di Roma Tre (Dipartimenti di Scienze geologiche e di Scienze dell'ingegneria civile) uno studio sulle problematiche di dissesto urbano e strutturale. In seguito ad un primo rapporto nel novembre dello stesso anno un'ordinanza del Sindaco ha poi disposto lo sgombero cautelativo di 45 appartamenti di uno dei grandi intensivi e ha impegnato i proprietari a studiare soluzioni per il suo consolidamento strutturale. Lo studio, completato alcuni mesi dopo, ha rilevato una situazione diversificata dei dissesti, attribuiti alla natura alluvionale e molto compressibile dei terreni e alla mancanza di fondazioni idonee, ed ha sottolineato la necessità di un più esteso e approfondito monitoraggio statico degli edifici.
Per valutare la possibilità di soluzioni più ampie ed organiche di quelle realizzabili attraverso l'iniziativa dei singoli condominii, ed offrire all'intero quartiere una prospettiva di “riabilitazione qualitativa” sia delle strutture edilizie private sia degli spazi pubblici, dei servizi e delle attrezzature, il Comune ha poi affidato (maggio 2002) al DAU dell'Università La Sapienza uno “studio di pre-fattibilità” il cui oggetto era così definito: “Verifica preliminare degli elementi primari di un progetto urbano volto a risolvere i problemi di dissesto, a ridefinire le tipologie edilizie e lo spazio urbano dell'ambito, a dotarlo di migliori servizi e di una più elevata qualità urbana.”
Lo studio è stato completato in sei mesi. Il terzo rapporto, quello conclusivo, è stato consegnato alla fine di dicembre 2002 ed è ora pubblicato in questo volume.
Procedimenti
Al terzo posto tra i motivi di interesse dello studio ho indicato il fatto che esso offre occasioni per riflettere sui percorsi e sulle modalità con le quali può oggi procedere un progetto urbano. Più precisamente, poiché lo studio si occupa di verificare la fase preliminare di un progetto urbano mettendo sul tavolo anche altri possibili strumenti (ed è per uno di questi, il “programma integrato” che alla fine opta) i percorsi e le modalità sulle quali ci permette di riflettere sono quelli della progettazione urbana in senso generale più che di uno specifico progetto urbano. E poiché da noi la progettazione urbana mi sembra una attività ancora per così dire in fasce, troppo gelosamente custodita com'è da due incombenti genitori – l'architettura e l'urbanistica – preferisco parlare di percorsi e modalità, cioè di procedimenti, piuttosto che di metodo..
Nell'esaminare le evoluzioni recenti dei progetti urbani in Francia e i notevoli cambiamenti occorsi nel funzionamento delle strutture che li realizzano, Yves Janvier osserva che la loro gestione ha definitivamente perso - similmente a quanto è accaduto nei processi di produzione di molti beni e servizi - qualsiasi carattere di sequenzialità gerarchica.
Ogni mestiere, ogni sapere, non interviene più in un punto prestabilito del processo per poi abbandonarlo. Che si tratti delle fasi di avvio, quali la concezione e l'elaborazione dei progetti urbani, o di quelle realizzative quali il loro montaggio e messa in opera, “nei nuovi processi tutti i mestieri intervengono insieme durante tutto il corso del progetto”. L'immagine usata da Janvier, tratta dalle evoluzioni recenti delle linee produttive nell'industria automobilistica, è quella del passaggio dalla “corsa a staffetta” alla “linea del rugby ”. In ogni momento della partita c'è qualcuno che tiene il pallone, ma tutti sono costantemente in campo e quella che si svolge è un'azione collettiva. Nella staffetta, al contrario, ogni corridore è in pista per una parte stabilita, e poi esce. Nei processi di trasformazione urbana, ed in particolare nella concezione e messa in opera dei progetti urbani, sottolinea Janvier “si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale e, nella pratica, di apprendere nuove componenti del mestiere”. Ciò che sta avvenendo nella pratica urbanistica europea, ove assumono rilievo crescente forme diverse di partecipazione e di concertazione, è il passaggio da paradigmi gestionali di tipo gerarchico, basati su meccanismi di segmentazione e attribuzione di competenze, a paradigmi gestionali orizzontali basati su meccanismi di impulso e di regolazione. E' nel carattere interattivo e iterativo dei processi che risiede oggi la possibilità di una migliore qualità dei risultati .
Dalla staffetta alla linea del rugby . Questo passaggio semplice e decisivo permea l'intero studio che l'ha assunto a slogan metodologico.
Il marcato carattere inter disciplinare dello studio, intrinseco ai suoi obiettivi ed alla natura dei problemi da affrontare, ha richiesto la mobilitazione di una gamma ampia di competenze specialistiche: dagli ingegneri strutturali e geotecnici che si sono concentrati sulle cause e la geografia dei dissesti, sulle possibili strategie e tecniche di consolidamento e/o di demolizione e ricostruzione; ai progettisti, ingegneri e architetti, che hanno elaborato diversi scenari morfo-tipologici degli edifici e degli spazi aperti del quartiere: anzitutto per rispondere all'interrogativo iniziale sulla fattibilità della ricostruzione in situ di un numero di alloggi almeno pari a quello attuale ma con tipi edilizi meno intensivi , poi affrontando come si vedrà più avanti molti altri interrogativi. Dalle sociologhe che, attraverso incontri e interviste a testimoni privilegiati, hanno valutato il grado di condivisione degli elementi primari del progetto urbano raccogliendo preziose indicazioni dalla collettività locale; agli economisti che, acquisite alcune ipotesi generali sul tetto di spesa per le famiglie e sui ruoli dei soggetti attivi del programma (famiglie, imprese, Comune) hanno costruito, usando un modello di valutazione econometrica, le ipotesi di costi e ricavi per gli attori della trasformazione. In parallelo a questi approfondimenti si sono svolti anche quelli relativi alla pre-fattibilità procedurale e ai modelli organizzativi cui far riferimento.
Fin dalle fasi iniziali dello studio è stato evidente che le specifiche parti del lavoro non si sarebbero potute svolgere in successione, attendendo che l'una fosse completata per avviare l'altra (p. 9). Ciò non tanto per la ristrettezza dei tempi assegnati bensì per una intrinseca e più cogente ragione di metodo. Ciascun gruppo, con il suo “punto di vista” ed i suoi specialismi, aveva bisogno di primi input dagli altri per poter svolgere al proprio interno prime elaborazioni da restituire come nuovi risultati parziali agli altri gruppi in un continuo processo di feed back e di successive approssimazioni. Non sarebbe stato possibile adottare altro procedimento che quello della “linea del rugby ”, dello svolgimento in parallelo delle diverse attività e della forte integrazione tra i diversi gruppi di specialisti.
Il modo di lavoro descritto con la metafora della “linea del rugby ” non mi sembra interpretabile né come meccanica importazione di modi di lavoro nati nel mondo della produzione industriale o di servizi, né come riproposizione della tradizionale impostazione di lavori multi-disciplinari. Non si tratta della vecchia e nobile istanza di superamento degli steccati disciplinari. Si tratta piuttosto di individuare i procedimenti con i quali i numerosi e disparati specialismi, indispensabili nella progettazione urbana, possono integrarsi senza negarsi. In proposito emergono dal lavoro almeno due indicazioni.
La forte integrazione tra i diversi specialismi è possibile solo se vi è un costante, pervasivo, determinante “attaccamento” al tema progettuale. Alle risorse, ai valori e agli obiettivi che in quella “parte di città” si esprimono e che il progetto urbano assume e rappresenta. Ciò che permette ad ogni specialismo di restare tale ed esprimere il meglio di sé integrandosi pienamente agli altri è l'adesione al tema progettuale. Adesione che è direttamente proporzionale alla sua rilevanza ed al suo significato generale. Questo è il legante.
L'altra indicazione è la frequenza, la rapidità, l'efficacia dei feed-back : frequenza, rapidità ed efficacia sono i caratteri che attribuiscono senso al lavoro di ogni gruppo di specialisti e permettono all'intero complesso un avanzamento di qualità.
In realtà la sostituzione di procedimenti “in parallelo” ai precedenti tradizionali procedimenti “in serie”, produce un modo di lavorare diverso se non addirittura opposto a quello tipico della “corsa a staffetta”. In questa ogni gruppo, lavorando nel proprio recinto specialistico, produceva un “testimone” che consegnava al gruppo successivo: alla fine della gara il traguardo non poteva che essere tagliato da un risultato “sommatoria”, magari apparentemente ineccepibile in termini di professionalità tradizionale, certamente inadatto alla complessità della trasformazione che il progetto urbano intende realizzare. Nel nuovo modo non si eliminano i recinti che però vengono continuamente attraversati dagli inputs degli altri recinti; non si negano gli specialismi, che però si nutrono costantemente degli avanzamenti prodotti dagli altri. Ciò implica che vi sia un luogo in cui costantemente convergono i risultati parziali e dal quale costantemente si originano input per i diversi gruppi di specialisti. Nella elaborazione di uno studio di pre fattibilità quale quello che qui si pubblica questo “luogo” è individuabile con relativa facilità nel coordinamento dello studio, che si è dotato di un “gruppo operativo” in grado di svolgere costantemente sia le funzioni di supporto tecnico per tutti i gruppi di specialisti, sia quelle di attivatore dei feed back . Naturalmente la redazione di un vero e proprio progetto urbano e la sua concreta attuazione richiederebbero strumenti più articolati e potenti. Ma la natura del problema e la forma delle soluzioni possibili sono le stesse. Nel diagramma (fig 1 ) elaborato in occasione della presentazione pubblica del lavoro, sono indicati i tempi, la direzione e i contenuti delle principali interazioni tra i gruppi di specialisti verificatisi nel corso del lavoro. Nella sintesi dello studio se ne segnalano alcune, particolarmente significative anche sotto il profilo del procedimento seguito.
A quasi due anni di distanza questo aspetto del lavoro mi sembra particolarmente significativo.
Il nuovo piano regolatore di Roma prevede numerosi progetti urbani, obbligatori e da redigere ex novo per la realizzazione delle nuove “centralità metropolitane e urbane da pianificare”. A questi se ne aggiungono altri che il Comune sta avviando per significative trasformazioni in altri quartieri della città: da San Lorenzo al Flaminio. Né può dimenticarsi l'indispensabile azione di monitoraggio di quanto è stato avviato, già prima della adozione del nuovo piano, per la realizzazione delle nuove centralità.
In tutti questi casi si tratta di attivare percorsi di progettazione – o di valutazione dei “lavori in corso” – marcatamente inter disciplinari. Dalle valutazioni strategiche di sostenibilità ambientale alle valutazione sugli effetti di mobilità e di traffico; dalle fattibilità economiche alla invenzione dei mix funzionali; dall'applicazione di tecniche efficaci di ascolto e comunicazione alla organizzazione di percorsi partecipativi; dalla costruzione di scenari progettuali alla messa in campo di metodi tipici del construction management : Una gamma di tecniche e di saperi devono essere mobilitati per gestire nel modo migliore trasformazioni rilevanti e significative “della città esistente”.
Ebbene, in tutti questi casi se si restasse ancorati ad approcci di tipo “sequenziale-corsa a staffetta”, o se si introducessero positivamente i nuovi approcci del tipo “linea del rugby ” ma si sottovalutassero le necessarie funzioni di feed back, si vanificherebbe il significato del nuovo piano. Invece che metodo per promuovere nuove qualità e integrazioni i progetti urbani diverrebbero “mucchi” di elaborati adatti solo a soddisfare una procedura burocratica.
A me sembra che l'occasione di questo studio, limitata e parziale ciò non di meno significativa, offra lo spunto per una riflessione più generale. Ovunque, almeno nell'esperienza europea degli ultimi quindici o venti anni, ci si sia posti il problema dell'intervento “per la città esistente” in modo serio, cioè fuori dalla “ricerca di visibilità e dalla retorica del mercato” si è avuto a che fare con il necessario superamento di paradigmi sequenziali e gerarchici. Sempre si è scoperto inapplicabile un percorso che pretendesse di derivare da assunti generali le soluzioni specifiche e si è dovuto sostituire al deduttivo l'induttivo. Sempre si è dovuto “ascoltare” il luogo, far parlare la città, e da questo inizialmente disordinato, forse caotico e dissonante moltiplicarsi di voci, esigenze, desideri costruire nuovi percorsi, elaborare scenari appropriati. Certo, la staffetta sembra più semplice, ordinata, sicura. Ma ove regnano complessità ed incertezza, nella metropoli che finalmente ha smesso di crescere, il campo e le regole del gioco sono diverse.
Riflettere sui procedimenti tipici della progettazione urbana significa anche riflettere sul significato del termine “progetto” all'interno della locuzione “progetto urbano”.
E' assai diffusa, e per alcuni versi fondata, l'idea che il progetto urbano si collochi in uno spazio intermedio tra architettura e urbanistica. Che esso rappresenti una, o addirittura si costituisca come, “frontiera ambigua” tra le due discipline.
E' possibile che questa accezione del progetto urbano contribuisca, consapevolmente o meno, al permanere di un'imbarazzante vaghezza sul significato da attribuire alla dimensione specificamente progettuale entro le pratiche di progettazione urbana. In altra sede ho argomentato sulla diversità per così dire strutturale che intercorre tra progetto di architettura, ancorché di vaste dimensioni, e progetto urbano. Fondato sulla unità di spazio e di tempo, sulla necessità di “decidere tutto” all'interno del perimetro di propria competenza, sull'obbligo a ricondurre entro quel perimetro le relazioni contestuali con la città, sul carattere “passivo” della variabile tempo, il primo. Diametralmente opposto in ciascuno di questi aspetti il progetto urbano: esso non dispone di una unità né di spazio (rifiuta il perimetro) né di tempo (si modifica nel corso del “tempo lungo” della sua progressiva attuazione), agisce concretamente sulle relazioni di contesto che ne sono oggetto e ragion d'essere per realizzare un sistema di interventi discreto nello spazio e nel tempo
Insistere sulle differenze mi sembra una strada utile, ancora in gran parte da esplorare; credo tuttavia condivisibile l'impostazione di chi sostiene che, in sostanza, il sapere progettuale mobilitato entro un progetto urbano ha la stessa natura di quello necessario per un progetto di architettura. Un sapere fatto di “competenze spaziali” e di un continuo, paziente e faticoso va e vieni tra le risorse su cui può far conto la trasformazione dello spazio e gli obiettivi che essa si pone; tra la formulazione dei problemi cui deve dar risposta il progetto e le soluzioni sempre numerose, diverse, alternative; fra le sfaccettature infinite dell'analisi e la necessaria sintesi della proposta.
Tuttavia, stabilito che le radici del sapere progettuale e del metodo progettuale cui far ricorso sono comuni, si dovrà convenire che “benché la competenza progettuale sia comune al progetto urbano e al progetto di architettura, la città non è un edificio, la città non è un'opera”.
E' su questo punto che lo studio mi sembra dia qualche contributo all'ulteriore riflessione.
Anzitutto perché, come ho già osservato, l'istanza progettuale lo pervade interamente. Se gli scenari progettuali sono il momento in cui tale istanza assume la massima evidenza ciò non di meno ogni altra parte dello studio, dalla fattibilità sociale a quella economica, ha una o più “dimensioni” progettuali al proprio interno, una o più domande “progettuali” cui rispondere. Ciascuno dei saperi e delle competenze mobilitate ha messo al centro della propria elaborazione il tema progettuale. La trasformazione fisica del quartiere, la nuova forma che esso potrebbe assumere, l'uso degli spazi aperti, le altezze e i tipi edilizi, le destinazioni e i riusi, non sono stati racchiusi in uno specifico circuito disciplinare, ma hanno informato di sé le diverse parti del lavoro. Questo molteplice e svariato interrogarsi da più punti di vista e secondo diversi approcci disciplinari intorno ai problemi e alle soluzioni progettuali mi sembra una mossa rilevante. Contiene in nuce la possibilità di superare un modo autoreferenziale di intendere il progetto di architettura cui troppo spesso la scintillante propaganda mediatica ci induce; di rompere quei recinti di cui il laissez faire vorrebbe fosse costituita la città, di cominciare a traguardare una nuova idea di unità cui inevitabilmente alludono gli infiniti frammenti della metropoli contemporanea.
Quanto agli “scenari progettuali” il loro contributo a indicare possibili significati e usi della dimensione progettuale è molteplice.
Un primo contributo viene dalla loro propria e immediata funzione di risposta ai quesiti di pre - fattibilità. E' possibile demolire un determinato numero di alloggi e ricostruirli in edifici di diversa tipologia e minore altezza nello stesso ambito urbano? E se sì, a quante e quali soluzioni di “disegno” del quartiere ciò può condurre? Il fatto stesso che le domande ammettano risposte differenti contribuisce, per così dire, a relativizzare i progetti: appare evidente ai destinatari che i progetti non rappresentano ciò che verrà realizzato, bensì un modo per chiarire con disegni e immagini “cosa accadrebbe se”. Si tratta appunto di scenari. Ciò nulla toglie alla serietà dell'esercizio: ciascun progetto di scenario è tecnicamente corretto e potrebbe essere sviluppato fino alla realizzazione. Ma non è questo l'obiettivo da perseguire in questa fase iniziale, di gestazione del progetto urbano. Gli scenari servono a definire una possibilità, simulare un assetto, individuare criticità o punti notevoli, indicare quali potrebbero essere le soluzioni per gli edifici e gli spazi aperti, quali rapporti potrebbero stabilirsi tra loro. Sono disegnati per approfondire il percorso che dalle prime valutazioni di fattibilità condurrà via via alle decisioni e alle realizzazioni. Nella dimensione “progettuale” del progetto urbano simulazioni, sondaggi, scenari hanno un ruolo importante. Sdrammatizzano il tradizionale significato ultimativo del progetto: le strade, gli edifici, gli appartamenti che vediamo non saranno necessariamente realizzati così, ma quello che vediamo è uno dei molti modi in cui potrebbero esser realizzati. Simulazioni, sondaggi, scenari permettono ai destinatari, alla comunità locale, alle famiglie, di conoscere, di valutare, orientarsi. Pongono all'attenzione dei protagonisti non più soltanto i dati quantitativi – quante case, a quale prezzo – ma la qualità delle soluzioni, la loro forma, la corrispondente forma e qualità degli spazi pubblici. Contribuiscono ad una decisione più consapevole.
Un ulteriore contributo a capire la natura della dimensione “progettuale” nel progetto urbano è dato dal rivolgersi degli scenari, in modo esplicito e diretto, alla configurazione degli spazi aperti.
Che il progetto urbano, e più in generale la progettazione urbana, abbiano al proprio centro, vero e proprio cuore e punto di fuga, lo spazio pubblico inteso come spazio di uso collettivo, aperto o coperto, pubblico o privato, è universalmente riconosciuto (anche se non altrettanto praticato). Ed è un tema attorno al quale credo si dovrà elaborare, sperimentare, realizzare a lungo. Intanto mi sembra significativo che in quasi tutti gli scenari elaborati nello studio il disegno complessivo parta da una scelta relativa alla organizzazione degli spazi aperti, al loro rapporto con il disegno dei tracciati stradali assunti come elemento di permanenza nell'assetto del quartiere.
Qui dunque lo studio si accosta ad un nodo essenziale, costitutivo del significato che diamo al progetto urbano contemporaneo; di come interpretiamo la sua stessa natura, il suo concentrarsi sugli spazi pubblici e di uso pubblico, il suo privilegiare le relazioni di contesto, i completamenti di reti, attrezzature, servizi, il ri-uso di strutture esistenti, la sua volontà di integrare, mescolare, collegare ciò che l'urbanistica e la città moderna hanno separato, frammentato, diviso; del suo fine ultimo che resta quello di conferire nuovi usi, significati e qualità ai luoghi della città esistente. Tutto ciò mi sembra configurare la possibilità di usarlo, il progetto urbano, per la riconquista di quella “competenza ad edificare” che Françoise Choay ci suggerisce come unico antidoto al rischio di disintegrazione delle discipline attraverso le quali la specie umana ha finora definito il proprio rapporto con lo spazio terrestre.
Sostituzione
Il secondo motivo di interesse generale del lavoro, e quindi della sua pubblicazione, è nel suo tema centrale, che è la “sostituzione” urbanistica ed edilizia. Si tratta di demolire diversi edifici del quartiere destinati a residenze, e di ricostruirli per lo stesso uso; di riorganizzare gli spazi aperti e di uso pubblico; di riorganizzare per altre attività l'attuale grande deposito ATAC. Insomma, il tema è quello di rifare un intero brano di città. Tema attualissimo anche se poco praticato.
Rileggendo il lavoro a distanza di tempo mi sembra che esso offra spunti di riflessione su tre questioni rilevanti per qualsiasi azione di sostituzione urbanistica ed edilizia. Lo spessore degli elementi sociali e culturali di cui tali azioni devono tener conto. La sostenibilità economica per i diversi attori delle azioni. La definizione delle funzioni appropriate al riuso di attrezzature pubbliche.
Una casa non è solo una casa. Che il tema dell'abitare nella metropoli post-industriale sia stato troppo al lungo trascurato, nascosto da una sorta di pigrizia culturale, dalla coazione a ripetere dibattiti, discussioni e politiche tipiche della fase della crescita urbana quando la questione delle abitazioni era questione “generale”, di tutto ciò siamo da tempo consapevoli. Un solo esempio tra i tanti: il nuovo direttore della triennale di Milano sta programmando “dopo due decenni almeno d'indifferenza critica e progettuale” l'impegno dei prossimi anni su questo tema che prevedibilmente sarà affrontato nelle sue più radicali e profonde mutazioni.
A Roma, nonostante alcuni tentativi, soprattutto in tema di localizzazione e dimensionamento degli insediamenti residenziali assistiti da contributi pubblici, non mi sembra che negli ultimi anni si siano avute esperienze o riflessioni significative. In generale la qualità della progettazione urbanistica ed edilizia dei nuovi quartieri residenziali non ha fatto passi avanti. Anzi, può dirsi che in molti casi la loro realizzazione abbia costituito una pesante retroguardia nella concreta produzione di città. Da qualche anno poi il rapido aumento dei valori immobiliari, determinato dalla riscoperta del “mattone come bene rifugio” e dalla propensione ad investire nel mercato residenziale di fronte alla crisi di quello mobiliare, ha costituito un alibi culturale ed imprenditoriale per evitare innovazioni in campo residenziale. Se le case nuove si vendono comunque, perché affannarsi e spendere nella ricerca di nuovi modelli? Perché domandarsi se l'offerta residenziale sia corrispondente e sensibile alle multiformi variazioni delle domande e dei bisogni reali ?
In questo deludente e arretrato contesto lo studio per Giustiniano Imperatore offre qualche spunto di riflessione soprattutto quando, attraverso l'indagine sociale, mette in luce alcune esigenze, desideri e speranze dei residenti e le loro idee sul rapporto tra case e spazi pubblici. Giustamente, anche nella relazione di sintesi, si insiste sul fatto che “Sono le famiglie residenti e proprietarie la componente essenziale del programma: sono loro a mettere in gioco le proprie risorse economiche, di tempo e di impegno; sono loro a dover decidere”. Non una domanda generica, quindi, cui offrire alloggi secondo le consuete pratiche di mercato, ma famiglie che dovranno partecipare all'intero percorso progettuale e realizzativo. Domanda qualificata, che pone problemi di gestione del programma affatto nuovi.
Le interviste sono illuminanti. La dimensione affettiva, culturale, di “attaccamento” alla propria casa e la preoccupazione per un intervento di demolizione e ricostruzione emergono evidenti in alcuni casi, soprattutto - come era da attendersi - per le persone anziane.“Qui ci sono persone che hanno vissuto per una vita in questi edifici e si avvicinano alla vecchiaia. Si rischia di togliere loro l'unica sicurezza”. Problema delicato e complesso, che ha contribuito ad escludere dalle ipotesi di sostituzione più radicale la parte del quartiere in cui più numerosi sono gli anziani; e che dovrà essere considerato con speciale attenzione in qualsiasi operazione di sostituzione edilizia in qualsiasi parte della città.
In generale per la maggior parte degli intervistati il programma, presentato nei suoi elementi primari, appare come una occasione significativa soprattutto per cambiare un aspetto del quartiere. Dei palazzi esistenti si dice “Brutti fuori, belli dentro . . . Le abitazioni all'interno sono molto più belle rispetto all'esterno”. Ciò che non funziona sono gli edifici nel loro complesso, la loro distribuzione, il loro accostamento: “Gli edifici sono troppo caotici e non sono armoniosi . . . cubi di cemento squadrati dove intorno ad ogni cubo ci sono quattro, sei portoni, ossia sei condominii”.
Ciò che non va è proprio il progetto del quartiere – noi sappiamo il suo essere stato realizzato senza un progetto degno di questo nome, senza un'idea di spazi pubblici e di tessuto urbano. “Se si realizzasse un progetto che riguardasse i diciotto palazzi . . . ci sarebbe sicuramente un miglioramento della vita e dell'estetica del quartiere”. “Nel progetto si dovrebbe prevedere un verde che non sia solo un cortile cementato all'interno degli edifici [come in molti degli attuali intensivi] ma sia anche un sufficiente verde esterno. Altrimenti ci si ritrova chiusi ed isolati dentro l'isolato”.
Questi desideri, questa speranza di non ritrovarsi “chiusi e isolati dentro l'isolato” è il punto di partenza per l'elaborazione degli scenari progettuali. L'organizzazione degli spazi aperti è stata messa al primo posto tra le “regole” che i gruppi di progettisti si sono date. La realizzazione di sistemi di percorsi e di spazi aperti in grado di garantire accessibilità ma anche privacy , la possibilità di sostare e incontrarsi senza che ciò implichi chiusura e esclusione sono stati alla base delle simulazioni progettuali.
Partendo dalla definizione di quelli che comunemente –ed erroneamente - vengono definiti i “vuoti”, e che sono invece i “pieni” di città e di urbanità, lo studio dimostra anche attraverso soluzioni alternative, che tipologie diverse da quelle degli intensivi a blocco con i quali è stata costruito il quartiere – e tanta parte della Roma del piano del 1931 - permettono un uso migliore del suolo. Il numero di abitanti e degli alloggi resta lo stesso ma gli edifici sono più bassi, si vede più cielo, si riescono ad ottenere spazi aperti verdi e pedonali più ampi di quelli attuali.
Occorre naturalmente verificare la pre-fattibilità economica dell'intera operazione. Senza di che speranze e desideri sarebbero destinati a rimanere tali. Lo studio dedica una parte importante ad individuare i percorsi, anche in questo caso definiti secondo diversi scenari, lungo i quali possono essere garantite condizioni economiche accettabili per le famiglie e per le imprese, e può essere riservata al miglioramento degli spazi aperti di uso pubblico una quota significativa dell'investimento totale (lo studio la quantifica in 18 milioni di Euro). Perché condizioni di questo tipo siano assicurate è necessaria la partecipazione del Comune, sia nel ruolo di garante di soluzioni economicamente corrette, socialmente eque e positive sotto il profilo dell'assetto urbano, sia come proprietario di aree pubbliche libere all'interno del quartiere e nelle sue vicinanze. L'uso di alcune aree pubbliche è considerato requisito indispensabile per garantire due condizioni essenziali.
La prima è conseguente alla scelta di non realizzare “case parcheggio”, scelta emersa con chiarezza fin dalle prime verifiche di fattibilità sociale. Il programma non inizierà dalla demolizione del primo gruppo di caseggiati e dalla riedificazione sui loro sedimi, bensì dalla realizzazione, nell'ambito del quartiere, di un certo numero di nuove abitazioni destinate al primo gruppo di famiglie che, entrandovi, metterà a disposizione del programma le vecchie case e i relativi sedimi. Su questi si realizzerà il secondo gruppo di alloggi, e così via. Questa operazione di “cuci e scuci”, tecnicamente verificata in tutti gli scenari, richiede la disponibilità delle “aree volano” necessarie alla realizzazione del primo gruppo di nuovi alloggi.
La seconda condizione da garantire riguarda la sostenibilità economica, sia per le famiglie sia per le imprese, dell'intero programma tutto basato su investimenti privati. Affinché alle famiglie siano offerte condizioni di pagamento congruenti con le loro disponibilità economiche, e alle imprese riconosciuti margini di profitto accettabili, il modello econometrico indica la necessità di realizzare una quota aggiuntiva di edilizia, che il soggetto imprenditoriale realizzatore del programma potrà vendere, sostenendo in tal modo la propria partecipazione al programma stesso.
La quota aggiuntiva di edificazione, che varia in funzione di diverse ipotesi previsive di costi e ricavi, è stimata nell'ordine di 30-35.000 mq di superficie utile lorda (corrispondente al 18/20% della s.u.l. dei 18 edifici inclusi nel programma, anche se non tutti oggetto di demolizione-ricostruzione).
Dove trovare le aree necessarie ? Scartata l'ipotesi di una “densificazione” all'interno del quartiere che contrasterebbe con l'obiettivo di ridurre le altezze degli edifici e, in generale, di migliorare la qualità urbana, lo studio le individua nella zona dell'ex Cinodromo da poco dismesso. Si tratta di un complesso sulle rive del Tevere, distante circa 1 km dal quartiere, ma ad esso collegato dalla prosecuzione del grande viale Giustiniano Imperatore al di là della linea ferroviaria lungo il fianco della Basilica di S. Paolo. E' evidente che l'inserimento di queste aree nel programma gli conferirebbe ulteriore qualità urbana: contribuirebbe a superare la frattura causata dai binari, estenderebbe l'azione di qualificazione degli spazi pubblici, aiuterebbe a superare una certa “chiusura del quartiere in se stesso” denunciata anche in numerose interviste.
In sintesi il Comune metterebbe a disposizione aree pubbliche oggi destinate a verde o servizi ma in condizioni di abbandono e alla fine dell'operazione riceverebbe una quantità almeno equivalente di aree con la stessa destinazione ma attrezzate. Se, oltre alla valorizzazione patrimoniale si considera il perseguimento di altre finalità pubbliche, quali il miglioramento del bilancio energetico dell'intero quartiere e della qualità dei suoi spazi aperti si può valutare che l'operazione sia in attivo anche per il Comune.
In proposito lo studio offre agli attori fondamentali, famiglie, imprese, Comune, alcuni metodi e criteri per valutare le reciproche convenienze. Alle famiglie permette di valutare le prospettive economiche “facendosi un'idea” sia dell' entità dell'impegno necessario, sia dei risultati conseguibili rispetto agli alloggi e alla qualità spaziale del quartiere. Alle imprese permette una valutazione di business plan . Al Comune offre un quadro globale secondo diverse ipotesi alternative, anche se la stima economica dei beni che esso riceve al termine dell'operazione è rinviata alla successiva fase di fattibilità vera e propria.
Gli scenari operativi configurati al termine di un percorso tipo “linea del rugby” confermano la pre-fattibilità, ed anche la significatività del programma.
Si apre qui un tema significativo ma che in questa introduzione può solo essere indicato. Nella città contemporanea gli incrementi dei valori immobiliari che le decisioni del Comune producono, si tratti di previsioni di piano, di realizzazione di infrastrutture o attrezzature (metro, parchi, servizi ecc), di messa a disposizione di proprie risorse patrimoniali, ecc. sono incrementi rilevanti. Attribuibili alla categoria della “rendita differenziale” non sono meno significativi di quelli che si producevano facendo diventare fabbricabile un'area agricola ai tempi della grande crescita (rendita assoluta). D'altro canto è noto che gli attuali oneri concessori fanno recuperare ai Comuni quote limitatissime di tali plusvalori, e che l'attuale configurazione delle imposte immobiliari locali non soccorre in tal senso. La stessa esperienza dei programmi complessi che hanno introdotto con successo i “contributi straordinari” aggiuntivi rispetto a quelli concessori, assai rilevanti almeno nell'esperienza romana, cos'altro indica se non l'esistenza di un cospicuo credito vantabile dalla città nei confronti delle sue stesse trasformazioni, credito spesso non riscosso? E' dunque aperto il tema cruciale di quali forme possa assumere il recupero “maggiore possibile” e per finalità pubbliche di quei valori che la città stessa crea nella sua trasformazione. Qualsiasi siano le direzioni che approfondimenti di questo tipo prenderanno, lo studio mostra con evidenza che essi debbono partire da una valutazione tecnicamente fondata, trasparente e disponibile per i vari soggetti che concorrono a decidere sulle trasformazioni, dei valori che si generano e delle loro possibili distribuzioni. Sono quindi assai utili le voci che si cominciano a levare sulla necessità di introdurre in forma sistematica queste valutazioni nelle pratiche urbanistiche e nella stessa formazione dei tecnici chiamati a progettare e gestire azioni di trasformazione urbana.
Su un altro tema spesso presente in operazioni di sostituzione o di riabilitazione di interi quartieri lo studio offre uno spunto di riflessione che va al di là del caso specifico. E' il tema posto dal riuso dell'ex deposito ATAC, tema che si colloca al confine tra “permanenza” (della struttura fisica) e “sostituzione” (delle funzioni). In effetti lo studio se ne occupa per così dire marginalmente: solo uno degli scenari progettuali lo affronta e le scelte di lay out funzionale sono descritte in modo assai sintetico nella relazione di pre-fattibilità tecnica.
L'edificio, costruito nel 1929 come deposito per i tram, viene considerato fattore di “sedimentazione della memoria collettiva” sia perché il piazzale costruito prima dei reinterri che alzarono il livello del quartiere, è “uno dei pochi spazi . . . ad aver conservato la quota originaria” del piano di campagna, sia per alcuni elementi architettonici di pregio. Se ne propone quindi la sostanziale conservazione: nella simulazione progettuale il suo lato verso il quartiere diviene fondale di un grande spazio aperto, sistemato a “gradoni”, per attività ed eventi. L'idea di un nuovo luogo del quartiere che ospiti iniziative, attività, eventi culturali e di aggregazione sociale del quartiere, e la stessa proposta di lay out funzionale sono tratte dallo studio di prefattibilità sociale ed in particolare da quella parte delle interviste espressamente dedicata ad avanzare “proposte per il riuso del deposito ATAC”.
Vi è qui, a mio avviso, una indicazione di metodo che val la pena di sottolineare.
Da tempo siamo abituati a pensare larghe parti della città contemporanea in termini di riuso. Anche dove la base economica non si è storicamente costruita su attività propriamente industriali, e dove l'immaginario collettivo non è stato dominato da immagini di grandi fabbriche e periferie operaie abbandonate, il riuso di spazi e strutture dismesse è comunque ben presente nella percezione delle dinamiche della città. Manicomi, mattatoi, mercati, depositi di autobus e di tram, magazzini, impianti per la produzione stockaggio e distribuzione di gas o di altri beni o servizi, depositi ferroviari, grandi officine di riparazione e manutenzione, non c'è quasi quartiere nel quale uno spazio o una struttura dismessa, o tuttora usata per attività clamorosamente incongrue con la città che gli è cresciuta intorno, non siano oggetto di domande, speranze, proposte di ri-uso. Se un grande “soggetto” – una Università, una istituzione culturale, una grande società – ne è o ne diventa proprietario le cose hanno uno svolgimento relativamente semplice. Il “contenitore” cambia funzione, le nuove attività possono più o meno integrarsi con la vita del quartiere, possono più o meno corrispondere alle esigenze della gente ed essere oggetto di conflitti la cui soluzione sarà più o meno positiva: ma la nuova vita del “contenitore” è comunque assicurata.
Il problema si pone quando ciò non avviene. Il deposito, i padiglioni vuoti del manicomio, il capannone, restano lì per anni, decenni, degradati e degradanti, senza soluzione. La vita della città scorre accanto lasciandoli nell'abbandono, o peggio venendone inquinata. Magari la proprietà registra nei propri libri contabili quegli oggetti per valori di comodo, ipotetici, le cui successive revisioni al rialzo rendono ancor più problematico il riuso. Spreco di risorse, degrado di vita urbana.
Cosa servirebbe ?
Negli ultimi anni mi sono trovato spesso di fronte a situazioni simili. Servirebbero “architetti delle funzioni”. Servirebbero capacità vere, professionali, un sapere consolidato e disponibile nell'individuare le funzioni e le attività, gli usi e i significati capaci di far rivivere quei luoghi, quelle strutture. Di renderli luoghi di riferimento, piccoli o grandi magneti capaci di arricchire la vita del quartiere, di moltiplicarne le dimensioni, di far venire voglia di uscire di casa “per andare lì”. Difficile pensare che per ciascuno di quei luoghi posti dentro quartieri densi e privi di tante funzioni non esistano nuovi usi vitali ed economici. Si tratta di immaginarli, comporli, sperimentarli, realizzarli. Un viadotto ferroviario può diventare una catena di botteghe e di atéliers sovrastati da una bellissima passeggiata verde; un vecchio deposito può diventare un centro pulsante di vita culturale; una grande officina di manutenzioni . . .
Lo studio non offre soluzioni generalizzabili. Ad essere sinceri non abbiamo trovato un “architetto delle funzioni”. Ma propone un approccio che mi sembra significativo. Ascoltare prima di tutto le voci del quartiere, sentire la gente, permetterle di esprimersi. In città che per decenni hanno costruito soprattutto case, questi massi erratici della fase precedente, costruiti dove allora la città ancora non arrivava ed oggi situati nel cuore della metropoli, inglobati in tessuti consolidati, possono trasformarsi in grandi preziose pepite.
Invece che partire dalla valorizzazione immobiliare si dovrebbe partire dai desideri. La valorizzazione seguirà.
Tempi
Due anni: un tempo lungo nella vita delle persone, impercettibile in quella delle città. Nel ridurre questo divario, nel rendere meno incomprensibili ai cittadini i tempi della trasformazione urbana consiste oggi uno dei compiti primari dell'urbanistica.
Nei due anni trascorsi dalla conclusione dello studio, si è detto all'inizio, “qualcosa si è mosso nel quartiere”. Alcune azioni sono andate nella direzione indicata dallo studio: l'attività del deposito ATAC è cessata, ed ora se ne può progettare il riuso; è stata aperta una sede, l'infobox , per la partecipazione dei soggetti locali al programma; il Comune ha costituito una “cabina di regia”, per coordinare l'azione dei diversi Uffici e Assessorati. Altre azioni sono andate in modo diverso: piuttosto che avviare una vera e propria azione di “progettazione partecipata” (in fin dei conti i committenti sono le famiglie !) il Comune ha preferito indire una consultazione internazionale per definire un “master plan” ed individuare un consulente urbanistico. Altre non sono andate per nulla: non è stato attivato, ad esempio, il monitoraggio statico strutturale di tutti gli edifici e non si è proceduto ad una diagnostica dettagliata. Mancano così a tutt'oggi elementi di conoscenza fondamentali.
Dunque è ancora presto per valutare, o anche solo per immaginare quale sarà il percorso reale della trasformazione di questo quartiere. Se ci si limiterà a risolvere il problema, pure urgentissimo e drammatico, delle 45 famiglie sgomberate, o se si porrà mano a quello non meno significativo ma di più ampia portata di “rifare” un quartiere. Una strada è stata intrapresa, e ciò è senz'altro positivo. Ma tutto dipende da come la si percorrerà.
Come ho detto all'inizio di questa introduzione, il primo impulso a pubblicare questo “Studio di pre fattibilità per un progetto urbano” è venuto proprio dalla necessità di fissare e rendere note le idee iniziali, le proposte e le ipotesi che hanno aperto quella strada.
Troppo spesso l'abitudine ai messaggi immediati e di breve durata dei media , la pigrizia della banalizzazione e della semplificazione, l'assuefazione alla sciatteria e trascuratezza dell'ambiente urbano producono il terribile risultato di far dimenticare “perché si è arrivati a questo”. Così troppo spesso i nuovi quartieri, che pure si costruiscono ancora nelle città la cui popolazione non aumenta più, gli spazi pubblici che pure si continuano a negare nella metropoli contemporanea, i luoghi urbani privi di significato e di valore restano lì, nell'immenso corpo in perenne cambiamento della metropoli a rappresentare labirinti incomprensibili di storie che nessuno ha più voglia di raccontare.
Ma quegli spazi che non ci soddisfano ed anzi ci offendono, quei luoghi che non ci parlano, quella sciatteria che ci avvilisce, quella negazione di una bellezza possibile che la città contemporanea sembra troppo spesso volersi negare, sono i risultati di molte scelte, di tante decisioni piccole e grandi ognuna delle quali, che lo si riconosca o no, si è “assunta una responsabilità”. Ognuna delle quali avrebbe potuto essere diversa.
Dunque il primo significato della pubblicazione di questo studio sta nel voler costituire quella che nell'urbanistica francese già molti anni fa veniva indicata come “équipe mémoire”. Nella gestione di un progetto urbano si formava sempre un piccolo gruppo di tecnici la cui funzione era quella di garantire la continuità dell'esperienza, assicurare che i cambiamenti pure necessari e spesso numerosi nelle soluzioni proposte fossero consapevoli, e conoscendole, migliorassero le soluzioni precedenti.
Come emerge dallo studio e come i due anni trascorsi da allora confermano, tutto dipende da come l'azione sarà gestita nel tempo. Qualche esempio può chiarire. La decisione in merito agli edifici da demolire e ricostruire è ancora in larga misura da prendere: se per quelli sgomberati è prevedibile che si arriverà a decidere nei tempi molto brevi imposti dall'emergenza, per gli altri la decisione dipende dalla volontà dei proprietari, cioè delle famiglie residenti. E come si orienterà tale volontà dipende, lo studio lo chiarisce, da molti e diversi fattori ai quali non è certo estraneo il comportamento dell'Amministrazione. Se si adotterà l'idea di realizzare quote aggiuntive di edilizia per sostenere la fattibilità economica del programma si dovrà decidere se aumentare la densità insediativa del quartiere oppure se utilizzare aree esterne come quella dell'ex Cinodromo. Anche la decisione sul deposito ATAC , apparentemente più semplice, dipende da diversi soggetti e richiede scelte importanti. E così via.
Del resto sappiamo che in qualsiasi progetto urbano – e il programma di Giustiniano Imperatore ne ha, sotto questo profilo, tutte le caratteristiche – la questione essenziale è la gestione del processo nel tempo.
Se la gestione del processo è tutto, nulla potrà essere fatto senza definire natura, ruolo e compiti del soggetto che deve garantirla. Specialmente importante è che siano garantite la continuità, l'autorevolezza e la capacità tecnica del soggetto responsabile della gestione. Occorre cioè assicurarsi che la necessaria flessibilità delle soluzioni specifiche non diventi instabilità ed estemporaneità nella definizione degli obiettivi. Che pur nella possibilità di individuare nel tempo soluzioni specifiche diverse ne sia garantita la coerenza con gli obiettivi, così come sia garantita la permanenza degli elementi strutturali del programma. Che qualora obiettivi o elementi strutturali debbano subire modifiche – probabili e ragionevoli in trasformazioni complesse e di lunga durata – le variazioni siano valutate e decise conoscendo bene obiettivi ed elementi strutturali precedenti. Solo con tali garanzie la flessibilità non diventa arbitrio ed è rispettata la filosofia del progetto urbano.
Circostanza questa che può dirsi confermata dall'intera esperienza europea degli ultimi venti anni. In tutte le esperienze europee alla concreta gestione dei progetti urbani si è provveduto con strutture unitarie, preposte all'intero progetto urbano, capaci e sperimentate sotto il profilo tecnico, forti e responsabili sotto il profilo decisionale-operativo. Ciò grazie anche ad un impegno diretto ed autorevole delle autorità politiche locali, che si esprime durante tutto il tempo (lungo) del progetto urbano. Che si chiamino Urban Development Corporation , Ètablissement Public d'Aménagement o Société d'Economie Mixte o che siano uffici ad hoc costituiti nelle Amministrazioni, queste strutture hanno garantito l'unitarietà e la continuità del percorso attuativo e il raggiungimento degli obiettivi fissati, del quale sono state direttamente responsabili. E' anche significativo che in genere queste “strutture di scopo” dopo il completamento della “missione” vengono smantellate.
Lo studio affronta questo problema nella pre fattibilità organizzativa e procedurale e valuta i diversi modelli organizzativi (Società mista per Azioni, Società di Trasformazione Urbana, Consorzio) in relazione alla natura e agli obiettivi del programma. Ne esce l'ipotesi di una struttura per così dire “a geometria variabile” che si modifica in funzione degli obiettivi propri di ciascuna fase operativa. Così, nella prima fase il soggetto della gestione dovrà configurarsi come “società di servizi” per produrre una serie di elaborati (da quelli più propriamente urbanistici al Piano economico-finanziario, dal programma specifico delle opere ai documenti di gara per l'individuazione dei partners privati ecc) e fornire servizi (dalle diagnosi strutturali di ciascun edificio all'interlocuzione permanente con le rappresentanze dei proprietari e con il gruppo locale di progettazione partecipata). Nella seconda fase si dovrà garantire assistenza alle decisioni di pertinenza dell'Amministrazione comunale centrale e del Municipio. Nella terza fase la configurazione sarà più propriamente quella di una Società realizzatrice degli interventi. Anche in considerazione di questa necessaria flessibilità operativa lo studio propone la costituzione di una Società di Trasformazione Urbana.
Naturalmente quella dello studio è una proposta. Altre soluzioni sarebbero senz'altro possibili e gli strumenti devono restare tali, senza essere assolutizzati o peggio trasformati in fini.
Quel che si deve evitare è credere di poter fare senza alcuno strumento.
Noi siamo ancora troppo abituati a ragionare affidando tutto al piano o al progetto; immaginiamo che una volta stabiliti il piano o il progetto non resti che attuarli. Stabilito l'uno o l'altro, la realtà non potrà che seguire le linee predeterminate, raggiungendo i risultati descritti. Naturalmente ciò può accadere, e di fatto accade quando il numero delle variabili da controllare è limitato. Accade quando il piano (o il progetto) funzionano, secondo la celebre metafora di Bernardo Secchi, come macchine banali. Ma nella città contemporanea accade sempre più raramente e in casi sempre meno significativi per la città. Certo non accade nei progetti urbani che, per definizione sono processi di trasformazione gestiti nel tempo e nei contesti.
Qualcuno può immaginare che nel quartiere sia indifferente se l'ex deposito ATAC resterà vuoto e inutilizzato per altri dieci anni, o sarà invece recuperato come centro vitale fin d'ora ? O che sia indiffrente quando si deciderà di riparare il collettore e di rifare gli spazi publici del quartiere ? O che le decisioni sulle altezze dei fabbricati da ricostruire, e sulla densità, siano ininfluenti rispetto agli orientamenti delle famiglie dell'intero quartiere ? O che i modi in quei questi e i tanti altri problemi saranno affrontati sia irrilevante per la qualità del processo di trasformazione nel tempo ?
Lo studio pone in chiaro che il processo di riabilitazione del quartiere non può essere gestito come se si trattasse di un progetto edilizio o una lottizzazione convenzionata. Il controllo nel tempo e nello spazio contestuale delle numerosissime variabili ha bisogno di una regia tecnica e operativa in grado di confrontarsi con la complessità e di gestirla.
Certo non si tratta di un problema né banale, né di facile soluzione.
Affrontarlo vuol dire impegnarsi a fondo per adeguare i nostri metodi di progettazione urbana alle necessità e alle speranze della città contemporanea.
Impegno ineludibile in una città che ha adottato un nuovo piano regolatore il cui cuore è costituito proprio dai nuovi progetti urbani.
dalla Introduzione del volume a cura di D. Cecchini, Gangemi Editore, 2005
Pier Paolo Pasolini, “Una vita violenta”, Garzanti editore, Milano, 1959
In particolare allo studio di pre fattibilità si chiedeva:
- di mettere a confronto azioni di consolidamento strutturale e/o di demolizione e ricostruzione, verificando la possibilità di realizzare tipologie residenziali meno intensive e garantendo - è stato questo un assunto iniziale condiviso da committenza e Università - la possibilità per tutti gli attuali residenti di continuare ad abitare nella stessa zona o in zone limitrofe;
di ridefinire e riorganizzazione gli spazi pubblici e aperti in modo da garantire livelli prestazionali migliori di quelli attuali;
di studiare la possibilità di riuso del deposito ATAC per servizi pubblici e privati, da integrarsi con quelli già presenti nel quartiere per garantire una migliore offerta complessiva;
di definire le modalità di applicazione, in tutte le fasi progettuali e realizzative, dei principi e delle pratiche dell'urbanistica condivisa;
di individuare modi e condizioni per la partecipazione di imprese alla realizzazione del progetto urbano.
Y. Janvier, “Un système de production en mutation” in A. Masboungi (a cura di), “Fabriquer la ville: outils et méthodes” DGUHC, , La Documentation française, Paris, 2001 p. 137-138.
Assunto iniziale dello studio era infatti che tutti i residenti dovessero poter “restare nel proprio quartiere” (salva naturalmente la facoltà di una diversa opzione per chi la desiderasse) ma con tipi edilizi meno intensivi e più rispondenti alle attuali esigenze dell' “abitare”.
B. Secchi, “Diario di un urbanista, Progetti, visions , scenari” in www.planum.net, 2003.
Vedi D. Cecchini, “Cinque principi per il progetto urbano”, in Annali del DAU, n.1. 2004
Questa è la posizione, ad esempio, di Christian Devillers, tra i pionieri del progetto urbano in Francia. Vedi, in proposito, il suo breve ma assai ricco testo pubblicato dalle Editions du Pavillon de l'Arsenal nel 1994. Ampi stralci sono stati tradotti recentemente nel n. 110/111, maggio-dicembre 2003, di Rassegna di Architettura e Urbanistica dedicato al progetto urbano in Francia, a cura di Paola Falini.
C. Devillers, « Le projet urbain » , Editions du Pavillon de l'Arsenal, 1944, p. 29
Nella seconda edizione del suo prezioso « Allegorie du Patrimoine » Françoise Choay rielabora e approfondisce il concetto di « compétence d'edifier » già presentato nelle prima edizione. Riporto qui la definizione che ne dà l'autrice. « J'appellerai compétence d'édifier la capacité d'articuler entre eux et avec leur contexte, par le truchement du corps humain, des éléments pleins ou vides, solidaires et jamais autonomes dont le déploiement à la surface de la terre et dans la durée fait sens, simultanément pour celui qui édifie et pour celui qui habite, comme le déploiement des signes du langage dans l'espace sonore et dans la durée signifie ensemble et indissociablement pour celui qui parle et pour celui qui l'écoute ». Françoise Choay, «L'Allegorie du Patrimoine », Editions du Seuil, Paris, 1999, p. 191.
Il Giornale dell'Architettura, n. 24, 2004, “Riportiamo al centro la residenza”, intervista di Carlo Olmo a Fulvio Irace, neo direttore della sezione Architettura e Territorio della Triennale di Milano
Dopo il completamento dello studio sono emerse difficoltà all'uso delle aree dell'ex Cinodromo per la riabilitazione del quartiere di viale Giustiniano Imperatore, uso proposto anche dal Municipio. Esse sarebbero divenute necessarie alla realizzazione di un nuovo deposito di tram. Se tale ipotesi si verificasse sarebbe un tipico caso di errore urbanistico, e civile.
Vedi, in proposito, il recente intervento “Tre nuove regole per l'urbanista” di Luigi Mazza su il Giornale dell'Architettura, febbraio 2003, in n.196 di Urbanistica Informazioni in buona parte dedicato alla riflessione e alla descrizione di recenti esperienze nel campo della valutazione economica di interventi di trasformazione urbana
Il riuso dei Mercati generali di Roma è da questo punto di vista esemplare. Nel 2004 un concorso internazionale per le realizzazione e gestione del recupero dei vecchi Mercati ha avuto come vincitore un gruppo imprenditoriale romano associato all'architetto Rem Koolhas. Le nuove funzioni da sviluppare all'interno dei mercati recuperati, inserite poi come elementi per la progettazione all'interno del bando concorsuale, furono discusse ed elaborate nel corso di una serie di workshops organizzati nel 2000 dall'USPEL con l'XI Municipio e partecipati da un'ampia rappresentanza di stakehoders locali. Questo vero e proprio lay out funzionale fu poi approvato come linee progettuali dal Consiglio dell'XI Municipio ed è oggi largamente presente nel progetto vincitore del concorso.
Mentre questo volume va in stampa alcune rilevazioni statico-strutturali hanno indotto il Comune a sgombrare altri due corpi scala dell'edificio già sgomberato nel 2001. Le famiglie trasferite salgono così a circa 100 e l'emergenza si aggrava.