Scheda 13

 

Bernardo Secchi

Le condizioni sono cambiate [1]

 

 

Le condizioni sono cambiate: progettare vuol dire oggi affrontare problemi, utilizzare metodi, di esprimere intenzioni differenti da un pur recente passato.

Vorrei descrivere il mutamento: dire da quali indizi esso è rivelato, a cosa è associato, dove nasce, forse anche da cosa è determitato. Più difficile è esprimere giudizi nei confronti dei suoi esiti.

Progetto è termine esteso: qui mi interessa quello attinente lo spazio fisico; i motivi per occuparsene non mi sembrano legati ad una moda culturale, ma a qualcosa che investe le più profonde strutture sociali ed economiche dei paesi occidentali ed ha riflessi evidenti sulla città ed il territorio.

E’ difficile dire di che sia fatto questo qualcosa: al suo interno vi sono fenomeni ed esperienze diverse come l'arresto dei flussi migratori, della crescita delle grandi città, il rallentare dell'edificazione nelle aree urbane ed il suo spostarsi in altri luoghi dispersi, la delocalizzazione industriale, il progressivo emergere della campagna urbanizzata, della industrializzazione diffusa, l'estensione del paesaggio delle periferie metropolitane.

Sullo sfondo vi è il mutamento dei rapporti tra i settori industriali urbani ed i settori rurali fornitori di alimenti e di materie prime; il mutamento dei prezzi relativi dei rispettivi prodotti, della struttura generale dei prezzi, la fine di una fase di intensa proletarizzazione della forza lavoro, i mutamenti tecnologici, la scomposizione dei cicli produttivi, la riscoperta di un mercato del lavoro configurato anche dal lato dell'offerta, la scoperta della "complessità e della contraddizione nella società, nella città e nell'architettura" del localismo, l’aprirsi forse di un nuovo e diverso ciclo di accumulazione.

In superficie vi sono mutamenti in qualche caso drammatici nell'occupazione del suolo: le grandi aree industriali urbane abbandonate, i vuoti che all'improvviso si sono venuti a formare entro tessuti densi e compatti, la formazione di periferie interne, l'occupazione da parte delle attività terziarie di vaste aree residenziali, l’incoerenza tra l’ubicazione dei servizi sociali e quella dei loro utenti, la dissoluzione dell'opposizione tra città e campagna, tra centro e periferia.

Immediatamente sotto la superficie una miriade di specifiche vicende locali, di identità di gruppi, di discorsi, di azioni di scambio politico, di conflitti, di politiche, di piani, di progetti e strategie individuali e collettive.

Ma sul territorio e nel tempo, nelle diverse situazioni locali, questa collezione di fenomerni non si è disposta come nello spazio e nella sequenza di questa pagina scritta. Associazioni e sequenze, intensità ed importanza sono state di volta in volta differenti. E anche per questo che si è tardato a riconoscere la svolta cui stavamo assistendo ed a comprenderne le conseguenze per il progetto di architettura e di urbanistica. Proverò a dirne alcune.

L’esperienza fondamentale a partire dalla quale l’architettura e soprattutto l’urbanistica modema si sono date una costituzione è un'esperienza di crescita, forse l’unica o la principale ipotesi fondatrice della modernità: di crescita della città, del suolo edificato attorno ad essa, di qualcosa di nuovo che di continuo si aggiunge a ciò che preesiste sino a sommergerlo, sostituirlo, trasformarlo, eventualmente negarlo. La crescita è per lungo tempo concentrazione: nello spazio fisico, in quello del potere ed in quello della giusitizia. Concentrazione del lavoro nella fabbrica, della popolazione nella cit­tà, del dominio in una classe, dei premi e delle pene in gruppi sociali diversi. Essa soprattutto appare associata al manifestarsi di una nuova struttura di relazioni sociali, ne appare anzi determinata in ogni dettaglio.

Le intenzioni progettuali dell'urbanistica e della architettura moderne riempiono di se soprattutto la crescita: la città di espansione ed i suoi elementi, le "SiedIungen", i nuovi insediamenti, i quartieri; l'espansione della città nelle campagne e la loro trasfonnazione, le città giardino, le "villes nouvelles"; i nuovi oggetti archi­tettonici destinati a strutturare lo spazio. Esse si configurano principalmente come tentativo di dominio del divenire, come volontà che il nuovo si adegui ad un ordine previsto, come visione anticipata di ciò che ancora non esiste e che può essere diversamente nominato.

Urbanistica ed architettura moderne divengono così programma di ricerca scientifica: tentativo di rielaborare il dato dell'esperienza entro una struttura teorica e tecnica in grado di prevedere e perciò dominare il fluire degli eventi e la struttura delle relazioni che tra essi intercorrono.

Il progressivo astrarsi dell'urbanistica modema dalle proprietà fisiche, materiali e formali degli oggetti che riempiono il suo campo di osservazione, il progressivo spostare il centro della propria attenzione dalla struttura morfologica della città e del territorio a quella economica e sociale, il trasformarsi dell'urbanista in economista, sociologo, storico, filosofo è intimamente legato all'esperienza della crescita, a questa fondamentale esperienza del nuovo che ha connotato il mondo occidentale negli ultimi due secoli.

Le modalità concrete attraverso le quali ciò è avvenuto sono state il ricorso ad una concezione olistica della società e della città, all'affermazione del’irriducibilità del tutto alle sue singole parti, dell'interesse generale a quello individuale. Ne è nato un metodo di progettazione nel quale l’attenzione è stata posta su argomenti di carattere universalistico, sulla scoperta di rapporti stabili nel lungo periodo, sulla definizione di tipi, sulla serie, sulla ripetizione. Ogni progetto urbanistico e di architettura ha assunto carattere dimostrativo, aspirando ad un contenuto di verità che travalicasse la singola situazione locale e la singola contingenza storica entro le quali era stato prodotto. Perciò l’urbanistica si è fatta discorso, ricorrendo in particolare a grandi strutture narrative: la storia della città industriale, epifania delle più stabili strutture della società, è stata narrata come quella di un peggioramento, il compito dell'urbanista come quello di opera per il miglioramento. Ciò ha consentito di dare identità ai soggetti sociali, agli antagonisti ed agli alleati, agli ostacoli, alle procedure di interazione sociale, di prospettare la crescita come associata ad una contesa, ad un conflitto, ad un gioco decisionale l’esito del quale deve essere perseguito, progettato, non è garantito.

Forse è incauto avanzare ipotesi cosi aggregate. Le storie dell'urbanistica e dell’architettura moderne sono naturalmente più ricche, complesse, polivalenti, in un certo senso ambigue, di quanto emerga dalle righe precedenti. Ma l’idea della crescita le ha comunque dominate, eventualmente come incubo, come rifenimento, negativo, così come ha dominato altre aree disciplinari, ad esempio l’economia politica, che si sono costituite contemporaneamente a loro.

L'arresto della concentrazione e della crescita urbana è evento che viene percepito con qualche lentezza. Probabilmente esso si è anche prodotto lentamente. Se si osserva la superficie degli avvenimenti cosi come è dato di percepire nel nostro paese, all'inizio degli anni '60 cogliamo il passaggio da una fase di sviluppo “estensivo”, durante la quale l’aumento della produzione aggregata si accompagna ad un sensibile aumento dell’occupazione, ad una fase di sviluppo "intensivo" nella quale, all'opposto, la produzione aumenta utilizzando tecniche risparmiatrici di lavoro. Naturalmente questi movi­menti sono la risultante di più articolate modifiche delle tecniche entro ciascun settore, della composizione settoriale del’output totale e dei rapporti tra i diversi gruppi di interesse. Da ciò consegue comunque un primo arresto dei grandi flussi migratori, degli spostamenti della forza lavoro dall’agricoltura all’industria, dalla campagna alla città, dal sud al nord, dal piccolo al grande centro, dalla piccola impresa arretrata alla grande e moderna. Essi daranno luogo, qual­che anno dopo, ad una drastica modifica della struttura demografica delle maggiori città.

Ma l’espansione delle aree urbane non rallenta per questo. Le condizioni abitative sono tali da giustificare ancora intensi programmi di edificazione. L'amministrazione pubblica. si candida come guida di questa nuova espansione: i grandi quartieri di edilizia pubblica, la progettazione delle più estese parti della città modema, sono posteriori a questo primo pas­saggio.

Alla fine degli anni '60 iniziano però intensi fenomeni di decentramento produttivo, di delocalizzazione industriale, di industrializzazione diffusa, di formazione di una estesa cam­pagna urbanizzata. Infine, al termine degli anni ‘70, un nuovo cambiamento delle tecniche produttive: esso viene presentato con i toni e gli accenti del “meraviglioso“, ma la realtà è forse più interessante. Si chiude una fase nella quale le modalità dell'organizzazione tayloristica della produzione implicavano che dosi sensibili e crescenti di suolo venissero associate ad ogni dose di lavoro, nella quale il layout di ogni ciclo produttivo era pensato in uno spazio comunque estensibile e se ne apre un'altra nella quale, all'opposto, la produzione si fa fenomeno meno appariscente che occupa spazi sempre più piccoli e che perciò si può più facilmente ubicare in modo disperso negli interstizi dei tes­suti urbani e rurali esistenti.

L'arresto della crescita urbana, dell'occupazione del suolo attorno alle grandi città, la dispersione spaziale della produzione, non possono più essere interpretate come dovute a riduzioni cicliche della produzione. Esse appaiono come il connotato principale di una nuova era, come il risultato di nuove relazioni tra i gruppi sociali, di nuove strategie.

Nelle grandi aree urbane e metropolitane guardando le quali sin dall'inizio si è costruito il problema urbanistico, vi sono ora dei “vuoti” estese aree “molli”, bacini e distretti industriali obsoleti ed abbandonati od in via di abbandono: i docks di Londra, il Lingotto a Torino, l’area Citroén a Parigi, Milano-Bovisa, Bagnoli a Napoli, i porti di Genova e di Rotterdam, Coventry. Essi confinano con aree "dure", nelle quali la residenza e le attività terziarie si contendono il terreno palmo a palmo. Attività sempre più variegate si rilocalizzano muovendosi lungo linee di minor resistenza che attraversano l’edificato in molte direzioni, non sempre lungo quella che dal centro va alla penferia. Esse tendono ad associarsi ed accostarsi senza regola apparente. L'eterogeneità domina il paesaggio urbano, quello delle periferie metropoIitane e della campagna urbanizzata. Città e territorio vengono sempre più pervasivamente tematiz­zati ricorrendo a parole diverse dal passato.

L'esperienza fondamentale a partire dalla quale si costruisce negli ultimi venti anni il problema urbanistico è dunque un'esperienza di progressivo arresto della crescita urbana e di progressiva dispersione: nello spazio fisico, in quello del potere ed in quello della giustizia. Industrializzazione diffusa, sistemi decisionali accentrati, idea locale della giustizia. Essa è per molti versi esperienza opposta a quella che troviamo all'origine del programma di ricerca dell'urbanistica e dell'architettura moderne e dà luogo ad una progressiva destrutturazione e delegittimazione del loro metodo di progettazione.

All'inizio della nuova tematizzazione troviamo una città fatta di “parti” che non necessariamente sono riconduclili alla totalità lungo i due assi del rapporto gerarchico e dell'integrazione: è la storia, la memoria che la città ha di sé stessa che dà unità alle sue varie parti. Le proprietà dei singoli oggetti architettonicí acquistano senso entro un sistema di rapporti che caratterizzano la singola parte di città: un certo paesaggio urbano, un certo contenuto sociale, una sua funzione.

Alla fine degli anni '70 le caratteristiche socíali di ogni singola parte della città non aderiscono più a quelle funzionali; le relazioni morfologiche non aderiscono a quelle sociali e funzíonali. Se percorro la città colgo informazioni incoerenti, il senso dei luoghi non mi appare immediatamente percepibile: densità e tipi edilizi prevalentí non mi parlano più dell'identità degli abitanti, della loro posizione nella divisione sociale del lavoro, di quanto si fa entro gli edifici.

Sto descrivendo il disagio, ma forse anche qualcosa di più rilevante. La crescita della città e della metropoli ci appariva destinata a proseguire; volevamo riempirla delle nostre buone intenzioni, escludere itinerari perversi, contenerla anche onde crescesse qualcosa d’altro. L'arresto della sua crescita ha accorciato d'improvviso l’orizzonte temporale delle nostre previsioni. La concentrazione riportava ogni cosa entro il nostro raggio visuale. Ritenevamo di poter vedere, prevedere, controllare. La dispersione sospinge la crescita fuori della portata del nostro sguardo, lontano dalla città ed in direzioni impreviste: la dissemina, la parzializza, la dissolve in episodi variegati.

Ma non per questo la nuova situazione mi sembra debba essere necessariamente descritta come "escrescenza" , "proliferazione", "cancrena", "metastasi", malattia incontrollata ed incontrollabile. Il ricorso così frequente a questi termini mostra una nostra difficoltà della visione.

Ci rendiamo conto che il tema non è più quello della costruzione "ex-novo” della "città moderna"; che questi termini. non possono più significare le molte forse troppe cose cui alludevano gli esempi dimostrativi dell'urbanistica e dell'architettura moderne. Lo spazio entro il quale vivremo i prossimi decenni è in gran parte già costruito. Il tema è ora quello di dare senso e futuro attraverso continue modificazioni alla città, al territorio, ai materiali esistenti e ciò implica una modifica dei nostri metodi progettuali che ci consenta di recuperare la capacità di vedere, prevedere e di controllare. E’ infatti dalla visione che dobbiamo cominciare.

La complessità attuale della società e del territorio, la difficoltà di collegare ogni loro elemento ad ogni altro ci dovrebbe spingere ad agire inizialmente selezionando relazioni sem­plici: ad esempio a distinguere realisticamente ciò che nella città e nel territorio è "duro", da ciò che è "malleabile", modificabile nelle sue proprietà, nel suo assetto fisico, nelle sue funzioni, nei rapporti con gli altri oggetti, nel suo senso complessivo. Duro, nella situazione italiana, forse europea, è il quartiere di iniziativa pubblica nella periferia metropolitana, il Corviale, il Laurentino, Secondigliano, il Pilastro, il gruppo dei condomini di sette od otto piani nella pianura della Brianza o del Veneto, il nodo autostradale, la barriera ferroviaria, l’insediamento abusivo sulla costa, la lottizzazione pretenziosa. Malleabile si è dimostrato, all'opposto, il centro storico, soprattutto lo spazio pubblico, l’occupazione precaria dei suoli periferici, l’area o l'edificio industriale obsoleti.

Ma questa è solo una delle configurazioni possibili: in situazioni differenti malleabile e duro possono essere riferiti ad oggetti diversi. A Los Angeles duri sono soprattutto la maglia infrastrutturale e quattro o cinque grumi di edificazione alta, malleabile è il restante oceano edificato; a Detroit quando si vuole costruire il nuovo stabilimento della Cadillac si rade al suolo la città polacca; a Mosca il duro prevale, il malleabile è quasi inesistente. Duro e malleabile non sono termini descrittivi solo di proprietà fisiche, di rapporti visivi. “Potty and clay” erano termini con i quali gli economisti, qualche tempo fa, descrivevano la capacità di adattamento, la scarsa resistenza di una parte dell’economia di fronte all'aggressività, alla forza strutturante dell'altra.

Negli anni passati, quando si pensava che la produzione di merci fosse attività eminente­mente consumatrice di suolo, in tutti i piani urbanistici dei piccoli comuni sono state inserite vaste macchie viola: ora sappiamo che non verranno mai riempite di stabilimenti. Esse sono e saranno parzialmente vuote, ma hanno strutturato una "dura" rete di interessi, non solo fondiari; spesso hanno dato luogo alla costruzione di infrastrutture, di quartieri residenziali; hanno dato luogo ad aspettative, a promesse, a patti che ora vengono duramente rivendicati. Duro e malleabile divengono così termini prossimi a negoziabile e non negoziabíle.

Lo spazio futuro sarà dunque il risultato anche di insediamenti mai sorti, delle azioni di scambio politico da essi innescate, delle intenzioni che si sono consolidate in valori fondiari. Le periferie metropolitane sono zeppe di progetti incompiuti che hanno cosparso il territorio di punti di domanda e di risposte non richieste; il sistema di interazione sociale è zeppo di vincoli, di variabili indipendenti, di temi non negoziabili. Lasciare nei piani e nei discorsi l’idea che i progetti possano proseguire negli stessi termini nei quali sono stati inizialmente pensati e con gli stessi protagonisti  è quantomeno elusivo: corrisponde a concepire il piano come un grande serbatoio che occorre riempire in qualche modo per colmare alla fine. Ma altrettanto elusivo è anche ritenere che entro l'eterogeneità e la complessità, entro uno spazio sem­pre più connotato da assenza o difficoltà di collegamenti tra le parti, ogni contaminazione sia possibile, ogni progetto sia legittimo e divenga dimostrazione di saggezza privata, gioco del­ raccostamento improbabile e sorprendente, infinito scambio e permutazione di elementi che ci eravamo abituati a comprendere entro ordinamenti significativi.

Modificare vuol dire appunto la ricerca di un metodo di progettazione diverso, solo per alcuni versi opposto a quello passato, nel quale l'attenzione sia posta primariamente al problema del senso, delle relazioni cioè con quanto appartiene al contesto, alla sua fattualità e materialità, alla sua storia, alla sua funzione nel processo di riproduzione sociale, alla sua regola costitutiva. Ad un livello più specifico vuol dire costruire piani “a grana più fine", privi di carattere dimostrativo, che non aspirino a trascendere la situazione nella quale sono prodotti, che non pretendano di legittimarsi mediante un uso strumentale e burocratico dell'apparato discorsivo consegnatoci dalla tradizione, ma che articolino lo spazio del discorso con più limitate e definite tematizzazioni; piani che perdano in parte il loro carattere istituzionale, di  norma astratta ed indipendente da fini specifici, che selezionino i temi della progettazione partendo dalla specificità dei luoghi, dal loro carattere posizionale,  riferendosi ad una idea di razionalità limitata. Ancora più nello specifico vuol dire abbandonare le grandi campiture sulle mappe, i grandi segni architettonici ed infrastrutturali sul territorio, agire sulle aree intermedie, sugli interstizi, sulle commessure tra le parti "dure", reinterpretare le parti  “malleabili", in qualche modo reinventare e une e le altre aggiungendo loro qualcosa che dia appunto senso all'insieme; stabilire cioè nuove legature, formare nuovi coaguli fisici, funzionali e sociali, nuovi punti  aggregazione  che sollecitino prospettive più distanti, sguardi più  generali entro i quali possano darsi progetti più vasti, discorsi più convincenti e veri.

Vuol dire cercare di nuovo una regola ed una semantica, non necessariamente prosecuzione o mimesi di quella storica, ma giustificabile con argomenti pubblici, non privati. Tutto ciò vuol dire sottoporsi ad una notevole dose di rischio intellettuale, forse anche ritrovare un motivo di maggiore impegno etico-politico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   


[1] Testo pubblicato in "Casabella: Architettura come modificazione", n.498/9, Electa Periodici, gennaio-febbraio 1984