Bernardo SecchiLe condizioni sono cambiate
Le condizioni sono cambiate: progettare vuol dire oggi affrontare problemi, utilizzare metodi, di esprimere intenzioni differenti da un pur recente passato. Vorrei descrivere il mutamento: dire da quali indizi esso è rivelato, a cosa è associato, dove nasce, forse anche da cosa è determitato. Più difficile è esprimere giudizi nei confronti dei suoi esiti. Progetto è termine esteso: qui mi interessa quello attinente lo spazio fisico; i motivi per occuparsene non mi sembrano legati ad una moda culturale, ma a qualcosa che investe le più profonde strutture sociali ed economiche dei paesi occidentali ed ha riflessi evidenti sulla città ed il territorio. E’ difficile dire di che sia fatto questo qualcosa: al suo interno vi sono fenomeni ed esperienze diverse come l'arresto dei flussi migratori, della crescita delle grandi città, il rallentare dell'edificazione nelle aree urbane ed il suo spostarsi in altri luoghi dispersi, la delocalizzazione industriale, il progressivo emergere della campagna urbanizzata, della industrializzazione diffusa, l'estensione del paesaggio delle periferie metropolitane. Sullo sfondo vi è il mutamento dei rapporti tra i settori industriali urbani ed i settori rurali fornitori di alimenti e di materie prime; il mutamento dei prezzi relativi dei rispettivi prodotti, della struttura generale dei prezzi, la fine di una fase di intensa proletarizzazione della forza lavoro, i mutamenti tecnologici, la scomposizione dei cicli produttivi, la riscoperta di un mercato del lavoro configurato anche dal lato dell'offerta, la scoperta della "complessità e della contraddizione nella società, nella città e nell'architettura" del localismo, l’aprirsi forse di un nuovo e diverso ciclo di accumulazione. In superficie vi sono mutamenti in qualche caso drammatici nell'occupazione del suolo: le grandi aree industriali urbane abbandonate, i vuoti che all'improvviso si sono venuti a formare entro tessuti densi e compatti, la formazione di periferie interne, l'occupazione da parte delle attività terziarie di vaste aree residenziali, l’incoerenza tra l’ubicazione dei servizi sociali e quella dei loro utenti, la dissoluzione dell'opposizione tra città e campagna, tra centro e periferia. Immediatamente sotto la superficie una miriade di specifiche vicende locali, di identità di gruppi, di discorsi, di azioni di scambio politico, di conflitti, di politiche, di piani, di progetti e strategie individuali e collettive. Ma sul territorio e nel tempo, nelle diverse situazioni locali, questa collezione di fenomerni non si è disposta come nello spazio e nella sequenza di questa pagina scritta. Associazioni e sequenze, intensità ed importanza sono state di volta in volta differenti. E anche per questo che si è tardato a riconoscere la svolta cui stavamo assistendo ed a comprenderne le conseguenze per il progetto di architettura e di urbanistica. Proverò a dirne alcune. L’esperienza fondamentale a partire dalla quale l’architettura e soprattutto l’urbanistica modema si sono date una costituzione è un'esperienza di crescita, forse l’unica o la principale ipotesi fondatrice della modernità: di crescita della città, del suolo edificato attorno ad essa, di qualcosa di nuovo che di continuo si aggiunge a ciò che preesiste sino a sommergerlo, sostituirlo, trasformarlo, eventualmente negarlo. La crescita è per lungo tempo concentrazione: nello spazio fisico, in quello del potere ed in quello della giusitizia. Concentrazione del lavoro nella fabbrica, della popolazione nella città, del dominio in una classe, dei premi e delle pene in gruppi sociali diversi. Essa soprattutto appare associata al manifestarsi di una nuova struttura di relazioni sociali, ne appare anzi determinata in ogni dettaglio. Le intenzioni progettuali dell'urbanistica e della architettura moderne riempiono di se soprattutto la crescita: la città di espansione ed i suoi elementi, le "SiedIungen", i nuovi insediamenti, i quartieri; l'espansione della città nelle campagne e la loro trasfonnazione, le città giardino, le "villes nouvelles"; i nuovi oggetti architettonici destinati a strutturare lo spazio. Esse si configurano principalmente come tentativo di dominio del divenire, come volontà che il nuovo si adegui ad un ordine previsto, come visione anticipata di ciò che ancora non esiste e che può essere diversamente nominato. Urbanistica ed architettura moderne divengono così programma di ricerca scientifica: tentativo di rielaborare il dato dell'esperienza entro una struttura teorica e tecnica in grado di prevedere e perciò dominare il fluire degli eventi e la struttura delle relazioni che tra essi intercorrono. Il progressivo astrarsi dell'urbanistica modema dalle proprietà fisiche, materiali e formali degli oggetti che riempiono il suo campo di osservazione, il progressivo spostare il centro della propria attenzione dalla struttura morfologica della città e del territorio a quella economica e sociale, il trasformarsi dell'urbanista in economista, sociologo, storico, filosofo è intimamente legato all'esperienza della crescita, a questa fondamentale esperienza del nuovo che ha connotato il mondo occidentale negli ultimi due secoli. Le modalità concrete attraverso le quali ciò è avvenuto sono state il ricorso ad una concezione olistica della società e della città, all'affermazione del’irriducibilità del tutto alle sue singole parti, dell'interesse generale a quello individuale. Ne è nato un metodo di progettazione nel quale l’attenzione è stata posta su argomenti di carattere universalistico, sulla scoperta di rapporti stabili nel lungo periodo, sulla definizione di tipi, sulla serie, sulla ripetizione. Ogni progetto urbanistico e di architettura ha assunto carattere dimostrativo, aspirando ad un contenuto di verità che travalicasse la singola situazione locale e la singola contingenza storica entro le quali era stato prodotto. Perciò l’urbanistica si è fatta discorso, ricorrendo in particolare a grandi strutture narrative: la storia della città industriale, epifania delle più stabili strutture della società, è stata narrata come quella di un peggioramento, il compito dell'urbanista come quello di opera per il miglioramento. Ciò ha consentito di dare identità ai soggetti sociali, agli antagonisti ed agli alleati, agli ostacoli, alle procedure di interazione sociale, di prospettare la crescita come associata ad una contesa, ad un conflitto, ad un gioco decisionale l’esito del quale deve essere perseguito, progettato, non è garantito. Forse è incauto avanzare ipotesi cosi aggregate. Le storie dell'urbanistica e dell’architettura moderne sono naturalmente più ricche, complesse, polivalenti, in un certo senso ambigue, di quanto emerga dalle righe precedenti. Ma l’idea della crescita le ha comunque dominate, eventualmente come incubo, come rifenimento, negativo, così come ha dominato altre aree disciplinari, ad esempio l’economia politica, che si sono costituite contemporaneamente a loro. L'arresto della concentrazione e della crescita urbana è evento che viene percepito con qualche lentezza. Probabilmente esso si è anche prodotto lentamente. Se si osserva la superficie degli avvenimenti cosi come è dato di percepire nel nostro paese, all'inizio degli anni '60 cogliamo il passaggio da una fase di sviluppo “estensivo”, durante la quale l’aumento della produzione aggregata si accompagna ad un sensibile aumento dell’occupazione, ad una fase di sviluppo "intensivo" nella quale, all'opposto, la produzione aumenta utilizzando tecniche risparmiatrici di lavoro. Naturalmente questi movimenti sono la risultante di più articolate modifiche delle tecniche entro ciascun settore, della composizione settoriale del’output totale e dei rapporti tra i diversi gruppi di interesse. Da ciò consegue comunque un primo arresto dei grandi flussi migratori, degli spostamenti della forza lavoro dall’agricoltura all’industria, dalla campagna alla città, dal sud al nord, dal piccolo al grande centro, dalla piccola impresa arretrata alla grande e moderna. Essi daranno luogo, qualche anno dopo, ad una drastica modifica della struttura demografica delle maggiori città. Ma l’espansione delle aree
urbane non rallenta per questo. Le condizioni abitative sono tali da
giustificare ancora intensi programmi di edificazione. L'amministrazione
pubblica. si candida come guida di questa nuova espansione: i grandi
quartieri di edilizia pubblica, la progettazione delle più estese parti
della città modema, sono posteriori a questo primo passaggio. Alla fine degli anni '60 iniziano
però intensi fenomeni di decentramento produttivo, di delocalizzazione
industriale, di industrializzazione diffusa, di formazione di una estesa
campagna urbanizzata. Infine, al termine degli anni ‘70, un nuovo cambiamento
delle tecniche produttive: esso viene presentato con i toni e gli accenti
del “meraviglioso“, ma la realtà è forse più interessante. Si chiude
una fase nella quale le modalità dell'organizzazione tayloristica della
produzione implicavano che dosi sensibili e crescenti di suolo venissero
associate ad ogni dose di lavoro, nella quale il layout di ogni ciclo
produttivo era pensato in uno spazio comunque estensibile e se ne apre
un'altra nella quale, all'opposto, la produzione si fa fenomeno meno
appariscente che occupa spazi sempre più piccoli e che perciò si può
più facilmente ubicare in modo disperso negli interstizi dei tessuti
urbani e rurali esistenti. L'arresto della crescita urbana,
dell'occupazione del suolo attorno alle grandi città, la dispersione
spaziale della produzione, non possono più essere interpretate come
dovute a riduzioni cicliche della produzione. Esse appaiono come il
connotato principale di una nuova era, come il risultato di nuove relazioni
tra i gruppi sociali, di nuove strategie. Nelle grandi aree urbane e
metropolitane guardando le quali sin dall'inizio si è costruito il problema
urbanistico, vi sono ora dei “vuoti” estese aree “molli”, bacini e distretti
industriali obsoleti ed abbandonati od in via di abbandono: i docks
di Londra, il Lingotto a Torino, l’area Citroén a Parigi, Milano-Bovisa,
Bagnoli a Napoli, i porti di Genova e di Rotterdam, Coventry. Essi confinano
con aree "dure", nelle quali la residenza e le attività terziarie
si contendono il terreno palmo a palmo. Attività sempre più variegate
si rilocalizzano muovendosi lungo linee di minor resistenza che attraversano
l’edificato in molte direzioni, non sempre lungo quella che dal centro
va alla penferia. Esse tendono ad associarsi ed accostarsi senza regola
apparente. L'eterogeneità domina il paesaggio urbano, quello delle periferie
metropoIitane e della campagna urbanizzata. Città e territorio vengono
sempre più pervasivamente tematizzati ricorrendo a parole diverse dal
passato. L'esperienza fondamentale a partire dalla quale si
costruisce negli ultimi venti anni il problema urbanistico è dunque
un'esperienza di progressivo arresto della crescita urbana e di progressiva
dispersione: nello spazio fisico, in quello del potere ed in quello
della giustizia. Industrializzazione diffusa, sistemi decisionali accentrati,
idea locale della giustizia. Essa è per molti versi esperienza opposta
a quella che troviamo all'origine del programma di ricerca dell'urbanistica
e dell'architettura moderne e dà luogo ad una progressiva destrutturazione
e delegittimazione del loro metodo di progettazione. All'inizio della nuova tematizzazione troviamo una
città fatta di “parti” che non necessariamente sono riconduclili alla
totalità lungo i due assi del rapporto gerarchico e dell'integrazione:
è la storia, la memoria che la città ha di sé stessa che dà unità alle
sue varie parti. Le proprietà dei singoli oggetti architettonicí acquistano
senso entro un sistema di rapporti che caratterizzano la singola parte
di città: un certo paesaggio urbano, un certo contenuto sociale, una
sua funzione. Alla fine degli anni '70 le caratteristiche socíali
di ogni singola parte della città non aderiscono più a quelle funzionali;
le relazioni morfologiche non aderiscono a quelle sociali e funzíonali.
Se percorro la città colgo informazioni incoerenti, il senso dei luoghi
non mi appare immediatamente percepibile: densità e tipi edilizi prevalentí
non mi parlano più dell'identità degli abitanti, della loro posizione
nella divisione sociale del lavoro, di quanto si fa entro gli edifici. Sto descrivendo il disagio, ma forse anche qualcosa
di più rilevante. La crescita della città e della metropoli ci appariva
destinata a proseguire; volevamo riempirla delle nostre buone intenzioni,
escludere itinerari perversi, contenerla anche onde crescesse qualcosa
d’altro. L'arresto della sua crescita ha accorciato d'improvviso l’orizzonte
temporale delle nostre previsioni. La concentrazione riportava ogni
cosa entro il nostro raggio visuale. Ritenevamo di poter vedere, prevedere,
controllare. La dispersione sospinge la crescita fuori della portata
del nostro sguardo, lontano dalla città ed in direzioni impreviste:
la dissemina, la parzializza, la dissolve in episodi variegati. Ma non per questo la nuova situazione mi sembra debba
essere necessariamente descritta come "escrescenza" , "proliferazione",
"cancrena", "metastasi", malattia incontrollata
ed incontrollabile. Il ricorso così frequente a questi termini mostra
una nostra difficoltà della visione. Ci rendiamo conto che il tema non è più quello della
costruzione "ex-novo” della "città moderna"; che questi
termini. non possono più significare le molte forse troppe cose cui
alludevano gli esempi dimostrativi dell'urbanistica e dell'architettura
moderne. Lo spazio entro il quale vivremo i prossimi decenni è
in gran parte già costruito. Il tema è ora quello di dare senso e futuro
attraverso continue modificazioni alla città, al territorio, ai materiali
esistenti e ciò implica una modifica dei nostri metodi progettuali che
ci consenta di recuperare la capacità di vedere, prevedere e
di controllare. E’ infatti dalla visione che dobbiamo cominciare. La complessità attuale della società e del territorio,
la difficoltà di collegare ogni loro elemento ad ogni altro ci dovrebbe
spingere ad agire inizialmente selezionando relazioni semplici: ad
esempio a distinguere realisticamente ciò che nella città e nel territorio
è "duro", da ciò che è "malleabile", modificabile
nelle sue proprietà, nel suo assetto fisico, nelle sue funzioni, nei
rapporti con gli altri oggetti, nel suo senso complessivo. Duro, nella
situazione italiana, forse europea, è il quartiere di iniziativa pubblica
nella periferia metropolitana, il Corviale, il Laurentino, Secondigliano,
il Pilastro, il gruppo dei condomini di sette od otto piani nella pianura
della Brianza o del Veneto, il nodo autostradale, la barriera ferroviaria,
l’insediamento abusivo sulla costa, la lottizzazione pretenziosa. Malleabile
si è dimostrato, all'opposto, il centro storico, soprattutto lo spazio
pubblico, l’occupazione precaria dei suoli periferici, l’area o l'edificio
industriale obsoleti. Ma questa è solo una delle configurazioni possibili:
in situazioni differenti malleabile e duro possono essere riferiti ad
oggetti diversi. A Los Angeles duri sono soprattutto la maglia infrastrutturale
e quattro o cinque grumi di edificazione alta, malleabile è il restante
oceano edificato; a Detroit quando si vuole costruire il nuovo stabilimento
della Cadillac si rade al suolo la città polacca; a Mosca il duro prevale,
il malleabile è quasi inesistente. Duro e malleabile non sono termini
descrittivi solo di proprietà fisiche, di rapporti visivi. “Potty and
clay” erano termini con i quali gli economisti, qualche tempo fa, descrivevano
la capacità di adattamento, la scarsa resistenza di una parte dell’economia
di fronte all'aggressività, alla forza strutturante dell'altra. Negli anni passati, quando si pensava che la produzione
di merci fosse attività eminentemente consumatrice di suolo, in tutti
i piani urbanistici dei piccoli comuni sono state inserite vaste macchie
viola: ora sappiamo che non verranno mai riempite di stabilimenti. Esse
sono e saranno parzialmente vuote, ma hanno strutturato una "dura"
rete di interessi, non solo fondiari; spesso hanno dato luogo alla costruzione
di infrastrutture, di quartieri residenziali; hanno dato luogo ad aspettative,
a promesse, a patti che ora vengono duramente rivendicati. Duro e malleabile
divengono così termini prossimi a negoziabile e non negoziabíle. Lo spazio futuro sarà dunque il risultato anche di
insediamenti mai sorti, delle azioni di scambio politico da essi innescate,
delle intenzioni che si sono consolidate in valori fondiari. Le periferie
metropolitane sono zeppe di progetti incompiuti che hanno cosparso il
territorio di punti di domanda e di risposte non richieste; il sistema
di interazione sociale è zeppo di vincoli, di variabili indipendenti,
di temi non negoziabili. Lasciare nei piani e nei discorsi l’idea che
i progetti possano proseguire negli stessi termini nei quali sono stati
inizialmente pensati e con gli stessi protagonisti
è quantomeno elusivo: corrisponde a concepire il piano come un
grande serbatoio che occorre riempire in qualche modo per colmare alla
fine. Ma altrettanto elusivo è anche ritenere che entro l'eterogeneità
e la complessità, entro uno spazio sempre più connotato da assenza
o difficoltà di collegamenti tra le parti, ogni contaminazione sia possibile,
ogni progetto sia legittimo e divenga dimostrazione di saggezza privata,
gioco del raccostamento improbabile e sorprendente, infinito scambio
e permutazione di elementi che ci eravamo abituati a comprendere entro
ordinamenti significativi. Modificare vuol dire appunto
la ricerca di un metodo di progettazione diverso, solo per alcuni versi
opposto a quello passato, nel quale l'attenzione sia posta primariamente
al problema del senso, delle relazioni cioè con quanto appartiene al
contesto, alla sua fattualità e materialità, alla sua storia, alla sua
funzione nel processo di riproduzione sociale, alla sua regola costitutiva.
Ad un livello più specifico vuol dire costruire piani “a grana più fine",
privi di carattere dimostrativo, che non aspirino a trascendere la situazione
nella quale sono prodotti, che non pretendano di legittimarsi mediante
un uso strumentale e burocratico dell'apparato discorsivo consegnatoci
dalla tradizione, ma che articolino lo spazio del discorso con più limitate
e definite tematizzazioni; piani che perdano in parte il loro carattere
istituzionale, di norma astratta ed indipendente da fini specifici, che selezionino
i temi della progettazione partendo dalla specificità dei luoghi, dal
loro carattere posizionale, riferendosi
ad una idea di razionalità limitata. Ancora più nello specifico vuol
dire abbandonare le grandi campiture sulle mappe, i grandi segni architettonici
ed infrastrutturali sul territorio, agire sulle aree intermedie, sugli
interstizi, sulle commessure tra le parti "dure", reinterpretare
le parti “malleabili", in qualche modo reinventare
e une e le altre aggiungendo loro qualcosa che dia appunto senso all'insieme;
stabilire cioè nuove legature, formare nuovi coaguli fisici, funzionali
e sociali, nuovi punti aggregazione
che sollecitino prospettive più distanti, sguardi più
generali entro i quali possano darsi progetti più vasti, discorsi
più convincenti e veri. Vuol dire cercare di nuovo
una regola ed una semantica, non necessariamente prosecuzione o mimesi
di quella storica, ma giustificabile con argomenti pubblici, non privati.
Tutto ciò vuol dire sottoporsi ad una notevole dose di rischio intellettuale,
forse anche ritrovare un motivo di maggiore impegno etico-politico. |
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